Senza
soldi e senza drammi.
Ero
studente a Lagonegro ed avevo avuto il permesso di tornare a casa per
qualche giorno, avevo pochi spiccioli che mi permettevano di arrivare
a Castrovillari, poi ci avrei pensato.
Arrivai a Castrovillari, senza una lira, andai a trovare un mio ex maestro
che si era trasferito a Castrovillari (Ciccio Filardi) e gli chiesi
50 lire che mi permettevano di arrivare ad Eianina, li' avevo un parente
e gli avrei chiesto qualche soldo.
Intanto si era fatto sera, con le 50 lire raggiunsi Eianina e chiesi
ospitalita' a questo parente, non avevo mangiato per tutto il giorno.
Caso volle, li' incontrai un altro ragazzo: Gaetano Lista che oggi vive
a Milano. Mi rincorai, eravamo amici, anche lui aveva chiesto ospitalita'.
La sera mangiammo da questo parente e l'indomani saremmo partiti per
San Lorenzo, pensavo tra di me: Gaetano senz'altro avra' dei soldi,
mi paghera' lui il biglietto. Dormimmo nella stessa stanza.
Gli chiesi, Gaetano tu quanti soldi hai? Neanche una lira, mi rispose,
Nessuno di noi due ebbe il coraggio di chiedere dei soldi ai parenti
e ci incamminammo a piedi per raggiungere San Lorenzo, avemmo un passaggio
su un carro che trasportava fieno fino al bivio di Civita e di la' a
piedi fino a San Lorenzo dove arrivammo nel tardo pomeriggio con una
fame da lupi.
Mi e' venuto spontaneo raccontare questo episodio, perche' essere senza
soldi e' stata una costante della nostra vita giovanile.
In collegio mi capitava spesso ricorrere a qualche piccolo prestito
che poi estinguevo con un altro prestito fino a quando non ricevevo
qualche soldo da casa per azzerare i debito ed essere di nuovo senza
soldi.
Anche quando sono partito per Milano avevo 20 mila lire, ne ho subito
speso 6500 per il biglietto del treno!
Il mio guardaroba era un vestito ed uno spezzato e qualche altro capo
veramente indispensabile.
Durante il viaggio nel treno, e' scoppiata una bottiglia da una valigia
che era sopra di me e mi ha macchiato di olio tutto il vestito, Il mio
unico vestito!
Io credo che le nostre esperienze giovanili ci hanno portato anche ad
ingegnarci per sopravvivere senza drammi, in attesa di tempi migliori..
Fa parte della mia filosofia di vita il non drammatizzare mai, ma subito
pensare come risolvere il problema, senza, come si suol dire, piangersi
addosso: e' tempo perso.
Quintino
PALAZZO

LA
FESTA DELLA MADONNA DEL POLLINO
Le
Magiche sensazioni Vissute e Raccontate da Alessandro MAZZIOTTI, durante
la suggestiva festa della Madonna Del Pollino in uno scenario Primordiale
http://www.suonidellaterra.com
.
alessandro Mazziotti
Dal
30/06/2000 Al 01/07/200
Facce
semplici, rugose e abbronzate dal sole che qui sembra picchiare forte
e sulla stessa piazza arriva ogni tanto qualcuno che sembra saper dove
andare.
Ci troviamo qui su invito di Pino Salamone, costruttore e suonatore
di zampogna (cui non piacciono le ance di plastica)che abbiamo conosciuto
a Gennaio al VII° Festival della Zampogna di Maranola.Dopo un po'
Pino ci viene a prendere e ci porta a casa sua. Sembra il santuario
della zampogna:.ciaramelle un po' dappertutto, libri sul mobile, canne
messe in un angolo a stagionare, sotto le scale zampogne d'ogni tipo
appese al muro. La stanza non è molto grande, ma l'accoglienza
lo è. Pino ci mette subito a nostro agio, ci offre del vino e
comincia a suonare la zampogna. L'atmosfera si scalda, il suono dei
bordoni penetra ogni fibra, si schiariscono gli occhi, gli sguardi s'incrociano
e ci si sorride. Chi lo sa che troveremo su in montagna, alla Cappella
della Madonna del Pollino?Arriva Domenico, il percussionista, con la
sua cordialità infinita. Prende il tamburello e comincia a suonare.
Momenti emozionanti di un'indescrivibile felicità. Si pranza
e si fa un giro per il paese, o meglio per i bar del paese, ci presentano
altre persone, altri ragazzi come Carmine, il figlio di Pino con la
sua simpatia dirompente. Penso tra me e me: " devo registrare i
suoni, devo fotografare queste facce, questi sorrisi, vorrei suonare,
ma io non centro nulla con loro. Questo è un mondo che non mi
appartiene, anche se sono tutti molto ospitali e gentilissimi, io qui
sono un corpo estraneo. Che faremo su in montagna? Si decide di andare
su. Ci si organizza con i posti in macchina (mi assicurano che una volta
si saliva con gli asini).Pino va a prendere il padre, un anziano suonatore
di Surdulina famoso in tutta la zona.
La strada sembra non finire più, buche, sassi, avvallamenti,
strettoie, curve. Ad un certo punto mi dicono "siamo arrivati".
Eravamo arrivati in ogni caso, perché c'incastravamo incastrati
con altre automobili e trattori in senso inverso, in cerca di "parcheggio".
Scarichiamo gli zaini e dopo un po' di peripezie riesco a lasciare la
macchina. C'inoltriamo in quella che dovrebbe essere la festa, il cielo
si comincia ad annuvolare, ma ci siamo, siamo arrivati !Passiamo tra
parecchie bancarelle che vendono un po' di tutto, poste sull'ultimo
tratto della strada. " Mah! La solita festa di paese", penso.
Ma ad un tratto comincio a vedere tende da tutte le parti, fuochi, odore
di terra bagnata, di fumo, di carne alla brace (mi assicurano che si
tratta di pecora) ma
. che meraviglia
. il suono della zampogna
proviene in lontananza, ma da ogni parte! Qualche organetto. Ci addentriamo
per trovare il posto per accamparci. Tamburelli frenetici
. In
qualsiasi posto ci fermiamo, ci offrono del vino e ci trattano come
se ci conoscessimo da sempre. Troviamo il posto, ci presentano tantissime
persone. Sembrano tanti fratelli, mangiano, bevono, suonano, sorridono,
scherzano, sono tutti felici. Pino comincia a suonare di nuovo la zampogna.
Nel frattempo arriva Gaetano
mai visto prima
ci monta
le tende vedendoci impacciati. Il vino proviene da ogni dove. Mi sembrano
tutti inebriati e felici, e così bevo per sentirmi con loro,
con le loro tradizioni bellissime, con i loro suoni, e i loro modi di
socializzare tra esseri umani, modi che ho sempre sognato, ma mai trovato
in nessun luogo. Siamo nella festa
. qui nessuno è più
bravo, nessuno pensa a se stesso, qui si è tutti fratelli, ci
si aiuta in ogni cosa, si divide tutto, dal cibo al vino agli strumenti
musicali. E' strano, ma ci sentiamo parte di loro, e così cominciamo
a suonare. La comunicazione tra persone è ai massimi livelli
di nuovo momenti di emozione. Mi soffermo ad osservare e ad ascoltare
uno zampognaro che suona una quattro palmi e mezzo, si chiama Salvatore.
La tarantella comincia ad avere ritmi serratissimi, alcuni anziani ballano,
l'energia esplode e le "sonate" terminano tra grida, applausi,
fischi ed euforia. In questi attimi nessuno dimentica il ringraziamento,
e così parte la "Serenata alla Madonna del Pollino"
ci si muove, dove si va ?
Finalmente scopro dov'è la Cappella
della Madonna, si entra suonando
. si suona, si balla nella Cappella
. in un luogo Sacro
la Serenata
.E' buio, ma la festa
continua, e continuerà per tutta la notte, così come la
pecora continuerà ad arrostire ininterrottamente sulle decine
e decine di fuochi notturni ed il vino ad essere tracannato. Bisogna
bere subito perché i bicchieri sono finiti e quei pochi sopravvissuti
servono per tutti. Con le bottiglie vuote ci si suona
. con la
"chiave d'ù maazzeno".Siamo fradici per l'umidità,
le nuvole ci avvolgono, ma il ritmo incalza, interrotto soltanto per
pochi istanti, per accordare le zampogne, per scambiarsi gli organetti,
i tamburelli e le "totarelle".I vecchi vegliano nella Cappella.
Arriva la processione con la fiaccolata, e ci si sposta tutti ad accoglierla
con la "Serenata alla Madonna" che durerà circa mezz'ora
di seguito
Momenti di commozione, ma il ritmo riprende. Oramai
è l'alba
sulla montagna in festa
si fa colazione con
vino, pane, pecora, "molognane" e bollito di pecora, ma la
musica non s'interrompe, c'è la sveglia al suono di zampogna
per quei pochi che si sono ritirati in tenda Sì ricomincia
.E'
il secondo giorno, ma vorrei che non finisse più. Verso le 16
si richiudono le tende, mi assicurano che ci si sposta alla fonte, poco
più a valle. Arriviamo alla fonte. Si rimontano le tende, e si
ricomincia. Si riaccendono i fuochi, la pecora si cuoce, e il vino non
finisce mai, come la musica, come gli urli, come i balli. Si fa buio
di nuovo, e la gente comincia ad andare via. Rimaniamo in pochi ma si
continua a suonare fino a notte fonda. Breve dormita, e all'alba sveglia
al suono dell'organetto. Si smonta e ci si sposta in paese. Colazione
a casa di Pino, con soffritto, soppressata, vino, formaggio e liquore
alle fragolette di bosco, naturalmente tutto accompagnato dal suono
della zampogna di Pino. Si avvicina l'ora di andare, ed è il
momento dei saluti, degli abbracci. Ci assale la malinconia ma ci rendiamo
conto dei momenti di intensissima gioia liberata che non dimenticheremo
mai più! Quei suoni, quelle facce, quelle sensazioni, quelle
mani rese rudi e callose dal lavoro che si muovevano sui chanter delle
zampogne, quegli occhi con lo sguardo fisso estasiato e felice dei suonatori,
quegli odori, quei sapori, quelle montagne
quei fratelli!
Nella speranza di rivederci presto, la mia macchina comincia a muoversi
. ad andare
. al suono di zampogna
Grazie di cuore
a: Pino Salamone e famiglia, Domenico Miraglia, Gaetano, Lorenzo e Antonietta,
Gianni, Salvatore, Leonardo 1, Leonardo 2, Alberico e la sua consorte
di Matera, Terranova di Pollino e tutti quelli di cui non ricordo i
nomi, la Madonna del Pollino, il gruppo della "Totarella",
i vecchi portatori della tradizione
.
Alessandro
Mazziotti
Il giardino innevato
da Fosso Iannace a Serra Crispo
Pubblicato da
indio a 12/30/2007 08:12:00 AM 9 commenti Link
a questo post.
La
Serra di Crispo, con i suoi 2053 metri, è forse il posto più
suggestivo dell'intero massiccio, tanto da essere spesso denominato
con l'appellativo di "giardino degli dei", per la suprema
bellezza che regna su questa montagna. Con la neve e il ghiaccio che
avvolge i rami dei pini loricati lo spettacolo aumenta ancora di più.
Sicuramente è in inverno, con la neve, che la montagna rivela
i paesaggi e le atmosfere più segrete e misteriose.
Sono partito da Mezzana assieme all'amico Vincenzo, instancabile compagno
di avventura. L'itinerario inizia dal sentiero delle superbe gole di
Fosso Iannace, sentiero che da solo giustifica l'escursione. Mezzana
e le altre frazionisono già lontane, giù a valle, avvolte
dalla nebbia incessante di questi giorni. Arrivati al Fosso Iannace
la nebbia è sparita. Da qui già possiamo vedere il mare
di nebbia sospeso sulle valli del Pollino, giù, fino al Monte
Alpi e al Monte Sirino. Il sentiero dei Fosso Iannace è ingombro
di neve bassa e ghiacciata. Qui dimorano da secoli maestosi esemplari
di abete bianco, mentre più sopra, aggrappati alla roccia, troviamo
una colonia di giovani pini loricati. Arrivati a Piano Iannace è
d'obbigo indossare le racchette. La neve è già qui alta
ed asciutta. Siamo diretti al piano di Toscano. Incontriamo uno scoiattolo
e una lepre che fugge via velocissima. Per il resto non sembra esserci
altra forma di vita animale. Tutto è avvolto dal "silenzio
bianco" del gelo e della neve. Al Piano di Toscano ci dirigiamo
direttamente alla Serra di Crispo, salendo sui crinali avvolti dal bosco
di faggio, che sottostanno alle rocce popolate dai pini loricati. Al
giardino degli dei l'atmosfera è veramente fantastica: i pini
loricati sono avvolti dal ghiaccio e dalla neve... sembrano quasi degli
strani, giganteschi coralli. Dalla cima il paesaggio è mozzafiato:
il mare di nubi è sospeso anche sulle valli della Calabria, fino
al mare e circonda le vette della Timpa di San Lorenzo e della Timpa
di Cassano
La vetta del Monte Sellaro sbuca più indietro
dalla nebbia
Ci rifocilliamo un po', qualche telefonata per salutare
amici e persone care, e poi ci mettiamo sulla via del ritorno, scendendo
in direzione di Selletta della Porticella e quindi del Piano di Toscano.
Purtroppo, visto che le giornate sono corte, bisogna procedere con fretta.
L'ideale sarebbe prendersela comoda e campeggiare sulla neve un paio
di giorni
magari scavandosi una bella buca nella neve come campo
base. Arriviamo al tramonto a Piano Iannace, ci leviamo le racchette
e ci dirigiamo di nuovo verso le gole. Sono ormai le cinque e il buio
comincia a calare lentamente. Nella neve notiamo un gioco di sfumature
e di riflessi rosso - volacei, quasi impercettibile
E' ora di
adoperare la lampada frontale perché il buio avvolge ormai la
foresta di faggi e abeti. Procediamo così nell'oscurità
sul ripido sentiero, ripercorrendo le nostre tracce dell'andata. Bisogna
stare attenti perché c'è il rischio, col buio, di non
vedere bene dove si mettono i piedi e quindi di scivolare e cadere.
Il cielo sopra di noi è punteggiato da migliaia e migliaia di
stelle dalla luce brillante
i faggi e gli abeti slanciati vi si
proiettano con le loro sagome scure . Non è facile di solito
vedere un cielo così. Le stelle più lontane, a causa delle
illuminazioni dei paesi, non si vedono affatto. A Roma, dove studio,
ne riesco a notare a malapena una decina! Usciamo dal bosco portandoci
sulla strada asfaltata. Il mare di nebbia non ha abbandonato le valli.
Notiamo curiosamente che in corrispondenza delle frazioni e dei paesini
la nebbia riflette la luce dei lampioni
E' un bellissimo effetto.
Sotto di noi, verso il fossato e sul lato sinistro della strada, sentiamo
i caratteristici grugniti di una mandria di cinghiali... L'escursione
è finita e come sempre il Pollino, con le sue meraviglie e le
sue suggestioni,ci ha ricompensati delle fatiche dell'escursione
Indio

APPUNTI
SU SAN LORENZO
Lecce,
03/03/2008
L'immagine che ho di San Lorenzo alla mia età,va a ritroso nel
tempo.ho vissuto pochi anni nel mio paesino,ma sono stati così
intensi che hanno segnato tutta la mia vita,infatti i ricordi sono cosi
intensi che mi sembra che il tempo mi abbia fatto una beffa a trascorrere
così veloce. Ero stato in collegio a Pietrafitta nei pressi di
Cosenza in un convento di frati francescani, cinque anni ho trascorso
rinchiuso un po' come "il grande fratello",Ma la vita
li era durissima con disciplina direi esagerata, senza vedere ne fratelli
o sorelle ne parenti senza mai fare una vacanza a casa, in questo collegio
c'era stato prima di me il mio compianto fratello Pietro poi trasferito
a Tropea. Mio padre per penuria di denaro desiderava che in futuro diventassimo
sacerdoti, perché eravamo stati catapultati lì senza una
vocazione e senza una nostra volontà. Mio padre mi minacciava
di mandarmi a pascolare i porci qualora avessi espresso la volontà
di ritirarmi. Non fu così, appena tornato, mi accinsi a studiare
da privatista presentando tre anni in anno a Lagonegro (PZ) ed intanto
mi presi un piccolo diploma. Poi subito a Fare concorsi per un posto
di lavoro, grazie a Dio vinsi due concorsi contemporaneamente: le Poste
e la SME che
poi diventò ENEL. Io volevo entrare alle poste ma mio padre andò
su tutte le furie perché voleva che io entrassi all'Enel. Dopo
un corso di nove mesi a Napoli sono tornato a San Lorenzo in attesa
che si costruisse una centrale che si doveva chiamare "MERCURE".Sono
stato in attesa prima due anni a San Lorenzo, la Chiamata non arrivava
mai e in questi due anni mio padre mi consegnò il mulo ed cominciato
a capire quali erano le mie mansioni,: caricare legna, paglia, fieno,approvigionare
l'acqua che all'epoca non esisteva in casa e si trasportava con i barili
di legno, poi avendo l'agenzia del gas ,dovevo caricarmi le bombole
sulle spalle per le vie e vicoli scoscesi del paese. Ma
. Arrivò
il momento che non ce la facevo più e Decisi di partire verso
il nord prima Milano e poi Como. Pima fui impiegato nella Società
Singer e poi lavorai per altri tre anni a Como. Ma il ricordo di quei
due anni al mio paesino: la gente, mi è rimasta nel cuore perché
quando vedevano un ragazzino col mulo che non ce la faceva a caricare
i barili si offrivano in molti ad aiutarlo Specialmente quando andavo
al Villaneto a prendere l'acqua.Quando mio padre guardia comunale andava
a ispezionare i boschi, io andavo con lui a cavallo al mulo ed io attaccato
alla coda dell'animale. Facevamo lunge escursioni in tutta la vasta
campagna se pur meravigliosa era molto faticosa. Oggi vorrei tornare
a quegli anni ma solo per rivisitarla. Per andare alla chiesetta di
S.Anna alla Falconara facevamo circa quattro ore a piedi ed io che ero
fresco di collegio servivo la messa a Don Nicola Zaccaro mio padrino
di cresima e anche mio professore
perché mi aveva preparato agli esami. Il ricordo di quegli anni,
è rimasto indelebile nel mio cuore anche se non c'era la strada
rotabile, l'acqua la fogna, la televisione la radio. Quando misero i
primi televisori nei bar, la gente andava prima per accaparrarsi il
posto della sedia per godersi " IL MUSICHIERE o LASCIA O RADDOPPIA
" di M.Bongiorno. Ricordi che ispirano ancora il mio pensiero a
scrivere liriche in lingua e in vernacolo e a dipingere cose del mio
passato.
Domenico AGRELLI

IL BAULE DEL
NONNO
di
Peppino Palazzo
Il nonno ha raccontato alle nipoti:
SAN LORENZO BELLIZZI.......... una volta!
San Lorenzo è un piccolo paese che si inerpica verso il lembo
di una bellamontagnola. L'inverno era sempre rigido: la neve cadeva
fitta sulle cime montuose e nelle valli e fino a coprire le case: fiocchi
leggeri e bianchi trascinati dal vento; dalle gronde dei tetti pendevano
i ghiaccioli. Il tempo era cupo e gelido, il luogo muto, il vento soffiava
impetuoso e sferzava le finestre che fischiavano, a volte, il vento
soffiava la neve fin dentro le case e la mattina quando si usciva di
casa, la neve ci cadeva addosso. Qualche passero infreddolito e coraggioso,
smarrito sotto la bufera, giungeva fin sul davanzale delle finestre
alla disperata ricerca di cibo. La sera il paese era buio, bisognava
farsi luce con la lanterna (non c'era luce elettrica) e sfidare le correnti
d'aria, la famiglia restava raccolta intorno al focolare dove con un
abbondante fuoco tentava di riscaldare la casa in pietra. L'inverno
era terribilmente duro, i lupi affamati scendevano dalle montagne in
cerca di cibo e, nelle campagne, mettevano a rischio le piccole e mal
custodite mandrie dei pastori. Tutto è silenzio quando nevica
e tutto dorme sotto il silenzioso turbinio della neve, la natura sembra
muta, gli alberi sostengono con i frondosi rami la neve, dai camini
escono pennacchi di fumo che spariscono nell'aria gelida, è veramente
meraviglioso poter contemplare e godere siffatta natura. Quando sta
per scendere la sera, si può ammirare e godere l'ultimo sole
brillare con forza sulle montagne incappucciate di neve, la bellezza
delle piccole valli innevate ed il piccolo paese assopito sotto il suo
mantello bianco. Anche la luna che staziona nel cielo sopra il paesino
sembra godere di tale incanto.
Tutto cambia quando giunge l'estate: il sole emerge brillante ad illuminare
le possenti rocce, che si stagliano contro il cielo azzurro e le vette
dei monti, i prati e le valli; la luce del giorno entra a fiotti nelle
case. I fiori sbocciano di nuovo, ritornano a cinguettare gli uccelli
da ogni albero, il loro canto si diffonde in tutta la campagna. Si incomincia
a godere la natura piena di fiori: le rose, i garofani, le primule,
le genzianelle con i fiori azzurri, i fiori silvestri dai petali delicati,
i papaveridispiegano i loro petali e fiori rossi, grandi e solitari,
fioriscono le onnipresenti ginestre con i bellissimi fiori gialli, le
mimose bianche delle acacie, fioriscono gli alberi da frutta, è
una natura piena di sfumature... rosso... azzurro... giallo...bianco...
rosa ... viola... ocra... e mille altri colori. I boschetti, i cespugli
sempreverdi, gli alberi emanano aromi pungenti ed in tutta l'aria aleggia
un persistente profumo: è tutto un effluvio di profumi. Nella
processione del Corpus Domini, nella seconda domenica di Giugno, le
ragazze, portano cesti pieni di fiori di ginestre e d'altri fiori dei
campi da lanciare devotamente al Corpo del Signore e le vie acciottolate
restano cosparse di fiori ed ovunque aleggia una leggera fragranza di
profumo. Il giorno trascorre lentamente fino al sopraggiungere del tramonto,
il sole si nasconde dietro le cime delle montagne già infuocate
e piene di luce. Scende il buio, il cielo si oscura poi spunta la luna,
è un tripudio di stelle che nel cielo formano varie figure, nelle
notti di luna piena si distingue nitido il carro dell'Orsa maggiore
e dell'Orsa minore: tutto è silenzio e pace infinita. Il sole
scioglie le neve e, di sbalzo, si possono osservare nuovi corsi d'acqua
montana, rigagnoli e piccoli torrenti con improvvise cascate, che, dai
pendii, confluiscono a poco a poco nell' impetuoso e schiumeggiante
Raganello. Lo sciabordio delle onde scroscianti che andavano a frangersi
contro gli enormi massi di rocce, echeggiava lontano in tutta la campagna
e la schiuma esplodeva tra i sassi e aleggiava lungo il letto del torrente
che scorre fino al mare tra profonde gole lungo la vallata scoscesa
e tortuosa, tra profondi gorghi e imponenti sassi levigati dalla forza
dell'acqua. Il paese gode dell'acqua fresca che scende dalla montagna
che sgela. San Lorenzo è un paesino con case di pietra, a schiera,
anche screpolate, addossate le une alle altre, basse, a volte erette
su fondamenta oblique, che si dispiegano in file irregolari lungo le
vie sterrate, tortuose e ripide, tetti di tegole rosse scolorite dalle
intemperie. i muri anneriti conoscono tutta la storia del paese. Quando
incominciano le prime nevicate e tutto è bianco ovunque lo sguardo
si posa, è segno che l'inverno è già arrivato.
I ragazzi correvano liberi in montagna, lontani dagli occhi dei familiari,
attraversavano i torrenti, saltavano sulle pietre, scivolavano sulla
neve ghiacciata, strillavano canzoni entusiasti di questi luoghi di
grande libertà. Dall'alto delle rocce e dagli alberi giungeva
il gracchiare dei corvi e delle cornacchie in cerca di cibo. I falchi
volteggiavano alti nel cielo azzurro, pronti a lanciarsi a picco su
qualche preda selvatica o animale da cortile. La campagna d'estate era
un vivace concerto di canti, di voci di suoni e di rumori: Il concerto
degli uccelli che popolavano gli alberi e dei grilli campestri, il gracidare
delle rane, il belare delle pecore, il raglio dell'asino in lontananza,
l'abbaiare dei cani, il vociare della gente della campagna, il suono
dell'organetto e di qualche zampogna o ciaramella che i pastori solitari,
che guidavano il loro gregge di pecore, portavano con sé per
consumare il loro tempo senza fine: un mondo di voci, di suoni, di magia.
Poi, al calar della sera, tramonti indimenticabili. I pastori conducevano
i loro animali al pascolo ogni mattina dallo spuntar del sole fino al
tramonto quando il cielo iniziava ad oscurarsi e le prime ombre della
sera avanzavano a coprire la natura che si accingeva al riposo. Si dedicavano
al pascolo ogni giorno, a volte ritornavano bagnati per qualche improvviso
temporale ed i poveri vestiti si asciugavano al calore del focolare,
pronti per il giorno dopo. Si aspettava con ansia la domenica. Le domeniche
erano splendide, le valli sembravano più verdeggianti: il torrente
più rasserenato, scorreva limpido e quieto, il vento portava
gli aromi dei fiori silvestri e i profumi del foraggio. Tutti ci incamminavamo,
da ogni dove, verso la cappella per assistere alla messa e per pregare.
La cappella aveva sempre gli stessi odori di cera di candele, dell'incenso,
l'aria profumata di canfora, con i segni della pulizia del pavimento
appena lavato. A messa le donne portavano lunghi e severi vestiti fatti
dalla sarta del paese, sulla testa o sulle spalle una mantellina o gravosi
scialli scuri che incorniciavano il viso, i capelli lunghi accuratamente
intrecciati. Gli uomini portavano i pantaloni di velluto, che schioccavano
ad ogni passo, per proteggersi dal freddo e portavano anche una cappa
di lana di colore nero, a volte con colletto di velluto, e cappello,
nero anch'esso ....... tutto era dicolore scuro. Era consuetudine per
le donne vestire di nero, a lutto, anche senza avere morti da piangere,
ci si preparava in anticipo, ridere o manifestare contentezza era una
colpa, portava malaugurio, maleficio,
effetti spiacevoli immediati o futuri, c'era, comunque, da aspettarsi
una punizione soprannaturale per la colpa commessa. Restare sempre avviluppati
alla tristezza preservava da colpe future da scontare. Si chiedeva grazie
e si stringevano patti con Dio, con i Santi infliggendosi severe promesse
a compenso delle grazie ricevute. Le grazie ricevute erano per lo più
un naturale sviluppo di eventi, ma l'interpretazione era rigorosamente
fatalistica: Uno scampato pericolo, il figlio che tornava vivo dalla
guerra, la pioggia a lungo implorata e che ora scendeva copiosa sugli
ortaggi e sui terreni seminati, erano preghiere esaudite da Dio e dai
Santi, grazie concesse; ora toccava mantenere i primitivi patti stretti
con i Santi. All'uscita dalla chiesa era usanza attardarsi a gruppetti
nello spiazzo di pietra davanti la cappella, che era il luogo più
pubblico del paese, per parlare, chiacchierare animatamente e stare
in allegria, per guardare maliziosamente, scambiare qualche rapido sguardo
con le ragazze in età di corteggiamento che giravano lo sguardo
o rispondevano con sorrisi contegnosi, passeggiare sottobraccio tutto
intorno o sfoggiare il vestito buono, atteggiandosi in posa, vogliosi
di fare bella figura. I cappelli conici di feltro nero si sollevavano
o si inclinavano per salutare con rispetto, d'estate gli uomini portavano
la 'paglietta': un cappello di paglia a larghe tese per proteggersi
dai caldi raggi del sole. I bambini giocavano vivacemente, c'era tanta
felicità anche nella povertà. Si ritornava a casa ed a
pranzo si gustavano i 'rascatidr', (pasta fatta in casa lavorata con
un apposito ferro, condita con sugo di carne di capretto o di agnello)
prima del pranzo si rendeva grazie a Dio per il cibo che ci si accingeva
a consumare. Un altro piatto molto prelibato era 'u laganidr' (pasta
fatta in casa, condita con sugo di lardo, ceci, e finocchio selvatico).
Gli abitanti del paesino erano tradizionalmente cattolici, per il Natale
prima si andava in chiesa e poi insieme a tavola. La mamma, preparava
la ''Pasta ca mudrica'' (pasta fatta in casa condita con sugo di baccalà
e mollica di pane soffritta) piatto tipico della cucina paesana. Poi
si gustava: prosciutto, salame, formaggio di capra e pecorino. Dopo
la cena di Natale in tavola si mettevano castagne, fichi secchi, noci,
l'uva passa, il tutto prodotto in proprio, mentre dalla finestra si
godeva il calar della neve, bella, soffice, silenziosa. Durante il pomeriggio
i bambini del paese giocavano per le vie, si rincorrevano, entravano
nelle case, aperte a tutti, ad augurare le buone feste, e ricevevano
dalle famiglie crespelle, pezzi di dolci caserecci, confetti... frutta,
e felici per le vie strillavano canzoni. A Pasqua dopo la cerimonia
religiosa si riuniva tutta la famiglia ed altri parenti per mangiare
insieme le specialità del paese. Gli sposalizi erano sempre occasione
di grande festa per tutta la famiglia. Al mattino la cerimonia civile
ed al pomeriggio la cerimonia religiosa, poi il grande ricevimento per
gustare il capretto e cibo arrosto alla brace e la festa si concludeva
con canti e balli, al suono dell'organetto, tamburo e bottiglia, si
ballava la tarantella che era il ballo più comune e che tutti
avevano la pretesa di saper ballare. La vita era dura in quel tempo,
tutti i membri della famiglia lavoravano: gli
uomini lavoravano la terra, non esistevano macchinari agricoli, tutta
l'attività era fatta a mano. I comuni attrezzi da lavoro erano
la zappa, il piccone, la falce, la pala, l'accetta, l'aratro di varie
dimensioni. Le persone erano semplici, gente di montagna con poche esigenze,
snelli, forzati vegetariani quasi tutti lavoratori dei campi o della
terra dediti all'agricoltura o pastori, quasi in ogni dimora c'era qualche
animale, l'immancabile maiale doveva sostenere la famiglia per tutto
l'anno. La sera, all'imbrunire, i contadini tornavano a casa con i loro
arnesi da lavoro sulle spalle, curvi, camminavano con aria umile e dimessa
per la stanchezza, dopo una lunga giornata di duro lavoro nei campi.
Portavano berretti scuri con la visiera per proteggersi dal sole durante
il giorno, le pesanti scarpe di cuoio sbattevano con forza i tacchi
imbullettati sulle vie acciottolate, avevano rustiche camicie, pantaloni
di velluto ove non era raro vedere delle toppe. La maggiore preoccupazione
era il sostentamento per tutta la famiglia durante il lungo inverno,
sempre gelido. In primavera e dopo che la neve si era sciolta, con l'aratro
tirato dai buoi, si seminava spargendo il seme con le mani: si seminava
grano, mais, ceci, lenticchie...,si piantavano patate, fagioli, peperoni,
pomodori. Cosi pure si piantavano alberi di castagno e noce, tutto dedicato
al consumo della famiglia,
si conservava tutto in un grande granaio, durante l'inverno si consumava,
l'anno seguente si poteva anche vendere quello che avanzava. Maturato
il grano, le donne non le falci lo mietevano e formavano dei piccoli
fasci, i bambini raccoglievano le spighe. Si procedeva poi a spulare
il grano con una pietra tirata da un mulo o da un asino o da buoi. L'animale
girava, girava, poi, tutta la famiglia era impegnata per arieggiare
il grano. Si approfittava di quando il vento spirava a favore, era più
propizia la notte con le correnti d'aria, perciò si dormiva anche
nell'aia. Si raccoglieva la paglia che poi si trasportava fin dove veniva
conservata per
alimento degli animali. Il grano veniva trasportato con gli asini al
granaio per la riserva prima che giungesse l'inverno.
Le donne, in gravosi sacchi posti sulla testa, portavano al mulino ad
acqua il grano ed il granturco per essere macinati, ridotti in farina
per fare il pane casereccio, pasta e polenta, durante l'inverno. Le
pannocchie di mais venivano raccolte quando non erano ancora del tutto
mature e si lasciavano ammucchiate fino alla maturazione completa. Le
donne sedute su sedie o muretti di pietra sgranavano le pannocchie del
mais direttamente nei sacchi, le foglie si usavano per il cibo degli
animali, ma anche
per riempire i materassi dei letti. Quando si sbucciavano le pannocchie
era una festa, si chiedeva la collaborazione anche dei parenti ed amici
o vicini di casa, chi trovava una spiga rossa aveva il diritto di scegliere
a chi dare un bacio, nel contempo si arrostivano e si cuocevano anche
le pannocchie appena sbucciate da consumare nella serata. Gli uomini
lavoravano nei vigneti, raccogliendo l'uva, producevano vino, raccoglievano
i tralci che si usavano per alimento degli animali. Inoltre le donne
raccoglievano anche le olive. Prima che arrivasse l'inverno le mucche,
le pecore, le capre, le galline venivano raccolte nelle stalle per
proteggerle contro la neve e dalla gelida stagione invernale. L'acqua
era originata dalle sorgenti naturali che scendevano dalla montagna
tutte verso il torrente, si trasportava in barili fino a casa. Per altri
usi e l'igiene personale si usava anche l'acqua piovana che veniva raccolta
in ampi recipienti, in genere in tinozze fatte dal falegname del posto,
la mattina ci si lavava il viso con l'acqua della bacinella. Le donne,
con grande destrezza, trasportavano l'acqua montana da fontane naturali
fuori paese in capienti barili adagiati sulla crocchia di capelli neri
intrecciati in mezzo alla testa ispessita con un fazzoletto a forma
di corona.
In un recipiente di legno, ricavato da un tronco di quercia, semplicemente
incavato e con i bordi alti, portavano i panni a lavare. Era importante
la raccolta della legna prima che arrivasse l'inverno sempre rigido
e con molta neve, le donne ed i bambini la trasportavano in casa.
Maria Susana PALAZZO, Sandra VERGAGNI
(Elaborazione di Quintino Palazzo)

Pellegrinaggio
alla Madonna Del Pollino
Un ricordo d'infanzia di Costantino Faillace
Zia Mariarosa
(conosciuta come "Mariarosa i Murano"), la sorella maggiore
della mia seconda madre, donna poderosa e di grande determinazione,
viveva a Bellizia con suo marito, all'altro lato delle Timpa di San
Lorenzo. Qualche volta veniva da noi, specialmente per la festa di San
Lorenzo o quella di San Rocco. Il viaggio era lungo e lei, pesante com'era,
non se la sentiva di affrontare spesso un viaggio così faticoso.
Una volta arrivò da noi verso l'inizio di luglio, ma non si fermò
che per pochi giorni in quanto doveva prepararsi per "sciogliere
un voto" alla Madonna del Pollino. Mi rivolsi a lei e dissi: "zia
Mariarosa, perchè non porti anche me alla Madonna?" "Fiju
miiu, a madonn è tanto luntana e tu hai solu nove an i unsì
abituat a camminà tant, ma sì mamma tuia dice di sì
io ti ci port!" Guardai mamma e lei, dopo aver riflettuto un pò
abbozzò un sorriso. Questo fu sufficiente perché l'abbracciassi;
poi disse: "vedìme che dice papà! Io unpuzz decide
tutt i cose!". Ero certo che mamma e zia Mariarosa avrebbero convinto
papà a darmi il permesso. Non dormii tutta la notte per l'ansia
di partire e vedere l'altro lato della timpa. Zia Mariarosa era venuta
con lo zio Antonio, chiamato "Ntnnii i sciqu" , percorrendo
la strada della Falconara, alternandosi con zio Antonio in groppa al
mulo. Quest'ultimo non poteva restare molto dovendo accudire gli animali.
Partì, infatti, il giorno dopo. Dopo tre o quattro giorni anche
noi ci preparammo per la partenza, ma non percorremmo la strada della
Falconara, perchè troppo lunga e faticosa, ci conveniva fare
"a scala i barile", un passaggio difficile, lungo le Gole
del Raganello. Questa avventura mi eccitava molto e m'intimoriva nello
stesso tempo: sapevo, dai tanti racconti che avevo sentito, che il percorso
era pericoloso; in più bisognava passare vicino alla "Grutta
y Marsilia!". Marsilia era una brutta strega che viveva in una
delle tante grotte e di cui si raccontavano ai bambini tante storie
terribili. Ma io ero con zia Mariarosa, lei sì che era forte,
altro che la mia mamma che era sempre ammalata!
Così,
finalmente partimmo! Il percorso non presentò nessun problema
fino a che raggiungemmo il Raganello; ora però dovevamo attraversarlo
ed aveva ancora abbastanza acqua, gorgogliando fra i grandi massi. La
zia, dopo un'attenta osservazione, indicò il percorso da fare.
Così, saltando da un masso all'altro, anche se le mie gambe erano
corte, riuscii, con grande soddisfazione di zia Mariarosa, ad arrivare
sull'altra sponda senza cadere nell'acqua!
Ora sì che veniva il brutto, ci si avvicinava sempre più
a Marsilia!
"Zi Mariarò, tu l'hai mai vista Marsilia?", chiesi
a zia Mariarosa.
"No. iu unajjia mai vista, so storie che si cuntano!" Disse
un po' scettica. Questo mi tranquillizzò.
"Ma tu mo nu' pinsá a Marsilia, pensa addu mitti i pidi
se no cadi....., qua ce nu gran pirrupu! Tu statte sempre arrita a mia
che si scivuli ci sung io!". Così, la seguii a brevissima
distanza, strisciando sul sedere e mettendo il tacco della scarpa nella
cavità della roccia, dove lei m'indicava.
Piano, piano, con molta attenzione, riuscimmo a superare l'ostacolo
presentato dalla roccia scivolosa e con accentuata pendenza. Superato
questo difficile percorso riprendemmo a conversare allegramente e, finalmente,
mi fu possibile vedere l'altra faccia della timpa: una parete verticale,
altissima, piena di buchi con tanti grossi uccelli che volavano in alto
lungo la gola che incominciava ad ampliarsi. Guardando tutti quei buchi
della parete rocciosa mi domandai chi mai aveva potuto farli e se qualcuno
vi abitava. Ma io non avevo più paura! Nessuno poteva scendere
giù da quella parete.
Arrivati a un piccolo pianoro ci fermammo per bere e mangiare qualcosa.
La zia mi disse: "I buchi non sono solo nella parete di fronte,
sono anche sotto i nostri piedi, più avanti ti farò vedere
un gran buco vicino alla strada".
Dopo non molto, infatti, sentimmo come un rimbombo sotto i nostri passi.
La zia disse: "Guarda là, in fondo a quel punto più
basso vi è una gran buca e se tu ci butti una pietra, rimbomba
fino a che non si sente più".
"Zia, posso avvicinarmi e buttarci una pietra?",
"Vengo con te così non ti avvicini troppo".
Ci avvicinammo piano piano alla depressione e io buttai con forza una
pietra, quasi arrotondata, nella grande buca dove rotolò con
tanti rimbalzi fino a che non si udì più nulla!
Riprendemmo il cammino! Man mano la strada si faceva più ampia,
percorribile con asini e muli; poi apparvero i primi terreni coltivati
e s'incominciò ad incontrare gente, curiosa di sapere da dove
venivamo. Ci chiesero tante notizie del paese e di gente che io conoscevo
perchè venivano a comprare "la roba" da papà!
Quando arrivammo alla masseria, zio Antonio ci venne incontro sorridente.
"Sei stato bravo a fare a piedi tutta questa strada, sarai certamente
molto stanco!".
" Sono un poco stanco, ma ho molta fame!!"
"Bene, qui il pane non manca, noi coltiviamo il grano e lo vendiamo
pure!".
La zia cominciò
a ispezionare la casa e ordinò di preparare da mangiare. Nel
frattempo arrivò anche zio Francesco, il fratello di zio Antonio,
e sua moglie, che chiesero tante notizie di parenti e amici di San Lorenzo.
Giacché la zia era stanca, mangiammo ciò che era pronto:
una bella frittata di uova con la salsiccia, una grande insalata di
pomodori del loro orto e la ricotta fresca, morbidissima, fatta la mattina.
Dopo aver mangiato con molto appetito e con gusto, andai a letto sprofondando
nel materasso fatto di foglie di granoturco.
Le masserie
di zio Antonio e di zio Francesco erano molto vicine, a distanza di
qualche diecina di metri, così io, nei primi giorni, passai il
mio tempo un po' da zio Antonio ed un po' da zio Francesco, facendo
molte domande e assistendo alla mungitura delle pecore e delle capre.
La mattina ero sempre presente per assistere alla mungitura e alla preparazione
del formaggio. Spesso aiutavo a trasportare il secchio del latte che
veniva poi versato in una grande pentola dove veniva bollito per fare
la ricotta e il formaggio. Ogni mattina, la prima ricottina veniva preparata
per me, che mangiavo a colazione. Alcune volte andavo a pascolare le
capre con il garzone, che viveva con lo zio Antonio da sempre. Non ricordo
il suo nome; era basso, un pò storpio ed un pò scemo.
Rideva sempre senza un perchè! Faceva un po' di tutto; infatti,
oltre che guardare le capre, preparava il pasto per i maiali, zappava
l'orto, puliva la stalla e faceva da messaggero fra una masseria e l'altra.
Le due masserie erano fornite di tutto ciò di cui si poteva aver
bisogno vivendo lontano dal paese. C'erano galline, conigli, tacchini,
oche, maiali, oltre alle pecore e alle capre per fare il latte e ai
buoi per l'aratura e la trebbiatura del grano. Vi erano anche due bei
muli per gli zii e alcuni asini per il trasporto. Una sorgente forniva
abbondante acqua che veniva utilizzata per irrigare l'orto, in cui si
coltivavano vari tipi di verdura, per uso domestico e per abbeverare
il bestiame. Con tanti animali, il concime non mancava di certo. Non
mancava davvero niente! Si poteva affrontare l'inverno con serenità
con la casa riscaldata dal grande focolare. La legna da ardere era sistemata
intorno alla fattoria. C'era davvero tanta vita in quei tempi a Bellizia!
Dopo circa
una settimana dal nostro arrivo, la zia cominciò a fare i preparativi
per andare alla Madonna del Pollino. Bisognava partire molto presto
perchè la strada per raggiungere il santuario era lunga, ci volevano
molte ore a percorrerla e bisognava arrivare prima che la chiesa fosse
piena di gente.
Verso le cinque del mattino del giorno fissato per la partenza, aprendo
la porta, mi accorsi che c'era altra gente che ci aspettava; era appena
arrivata da una masseria non molto lontana. Al gruppo si unì
anche la moglie di zio Francesco. Quest'ultimo restò per sbrigare
le faccende delle due masserie mentre zio Antonio e zia Mariarosa erano
assenti.
La strada era davvero tanto lunga ma non faticosa. Durante il percorso
altra gente si andò unendo a noi. C'era chi si impegnava a canticchiare
le canzoni sacre in elogio alla Madonna, chi raccontava storie varie,
chi suonava l'organetto e chi la zampogna, era una bella carovana di
gente allegra e spensierata, desiderosa di divertirsi. Dopo aver viaggiato
per tre ore, ci fermammo presso una fontana per fare colazione, ormai
non eravamo molto lontani dalla meta. Ognuno aprì il proprio
cesto incoraggiando il vicino a "favorire". La maggior parte
della gente mangiò salsiccia con peperoni, uova e patate, accompagnati
da qualche bicchiere di vino! Dopo colazione , un giovane cominciò
a suonare l'organetto, era molto bravo, e incitò i compagni a
ballare. In un baleno si formò un gruppo di ballerini che invitarono
le donne a ballare la tarantella. Queste non si fecero pregare, accettarono
con piacere di iniziare delle movenze di danza. Durò solo pochi
minuti, poi tutti vollero riprendere il cammino.
Arrivammo alla Madonna verso le 9 e mezzo e già c'era tantissima
gente accampata, la chiesa era già piena e la messa stava per
cominciare. La zia si fece strada fra la folla con una certa energia
fino a che raggiunse la sacrestia da dove, dopo un po', riapparve abbracciando
un gran cero colorato e decorato con immagini sacre. Noi ci sistemammo
non lontano dall'altare, mentre restava aperto un passaggio dalla porta
fino all'altare riservato a chi lo voleva raggiungere.
Lo scioglimento
dei voti
La maggior
parte della gente che si reca alla Madonna del Pollino, percorrendo
lunghissime distanze, vuole chiedere una grazia per superare difficoltà
sentimentali, di salute o di affari, oppure vi si reca per sciogliere
un voto fatto da tempo e per il quale ha già ricevuto la grazia.
Nel primo caso si fa un vero e proprio patto con la Madonna: "se
tu mi aiuti io mi impegno a ripagarti ritornando da te per sciogliere
il voto portandoti quello che ti ho promesso". Molte persone percorrevano
scalze la distanza dal luogo di partenza fino al santuario, impiegando
fino a due giorni.
Adesso che con le macchine si arriva in poco tempo, il significato della
visita al santuario è in parte cambiato: ci si va principalmente
per fare una scampanata con pic-nic in compagnia d'amici e parenti;
pochi vanno per chiedere una grazia o sciogliere un voto come avveniva
una volta! Ma, torniamo alla mia visita al santuario con zia Mariarosa.
La chiesa
era ormai colma di gente nell'attesa di vedere apparire dalla sacrestia
il prete con i chierichetti. Sulla porta della chiesa apparve una donna
con i capelli sciolti. La gente, a fatica faceva spazio per permetterle
di raggiungere l'altare e "sciogliere" il suo voto! La donna
s'inginocchiò e si protrasse con il corpo in avanti appoggiandosi
sulle palme delle mani, poi abbassò la testa fin quasi a toccare
il pavimento, tirò fuori la lingua e incominciò a strisciarla
sul pavimento stesso mentre avanzava carponi verso l'altare. Una scena
che mi fece rabbrividire, mi venne la pelle d'oca sulle braccia. La
gente rimase immobile, silenziosa, senza commentare, mentre lei avanzava
verso l'altare. Quando mi fu vicina, vidi la sua lingua sporca di terra
e arrossata dal sangue per le abrasioni che aveva prodotto lo strusciare
sul pavimento. Ne rimasi scosso e turbato. A questa donna, poco dopo,
ne seguì un'altra che aveva legato un sacchetto per ogni ginocchio.
Si spingeva avanti col corpo appoggiandosi sul palmo delle due mani,
e, come la donna precedente, avanzò lentamente verso l'altare,
mentre il suo viso accusava forti dolori. Dopo la messa iniziò
la processione che io seguii stando attaccato alla veste di mia zia,
come mi aveva comandato per non perdermi mentre lei abbracciava amorevolmente
il suo grande cero votivo.
Appena usciti dalla chiesa seguimmo la processione con la Zia Mariarosa
che immersa nella sua devozione, continuava ad abbracciare il suo grande
cero.
"Zia", le chiesi "ma che vi era in quei sacchetti che
quella donna aveva sotto le ginocchia?". "Ciceri" mi
rispose la zia,
"Ceci" . "E perchè se li è messi sotto
i ginocchi"
. "Per farsi male" disse la zia.
"E perchè si doveva far male?"
" Per ringraziare la Madonna della grazia ricevuta",
"E quell'altra donna che strisciava la lingua per terra?".
"Anche lei l'ha fatto per ringraziare la Madonna".
Restai abbastanza sconcertato. "Ma zia, perché la Madonna
vuole che la gente debba tanto soffrire per ricevere la sua grazia?".
"Non è la Madonna che vuole questo; è la gente che
desidera dimostrare in tutti i modi la sua gratitudine alla Madonna
per la grazia ricevuta, offrendo il proprio dolore!"
La zia mi spiegò anche che tutti quegli oggetti in argento, alcuni
in oro, che avevo visto vicino all'altare ed in sacrestia rappresentavano
i voti sciolti per ringraziare la Madonna della grazia ricevuta, quasi
sempre per la guarigione di una persona cara.
Dopo la processione
si formarono vari gruppi e per tutti incominciò la festa! Alcune
persone si riunirono per mangiare altre per suonare e ballare, per cantare,
o solamente per incontrarsi e salutarsi con affettuoso calore. L'aria
di allegra festa coinvolse tutti, incluso me e durò tutta la
giornata, Poi, quelli che erano giunti da non molto lontano si prepararono
per il ritorno, mentre quelli che provenivano da paesi lontani si apprestarono
a passare la notte all'aperto per ripartire la mattina successiva di
buon'ora. Noi eravamo fra questi ultimi.
Io, in ogni modo, non sarei tornato con la zia; avremmo viaggiato assieme
per un tratto, poi avrei proseguito con alcuni miei paesani per ritornare
a San Lorenzo, facendo la strada della Falconara.
Nel separarmi da zia Mariarosa e da zio Antonio li abbracciai con commozione,
ringraziandoli di avermi portato con loro a una festa tanto bella. Così
ci salutammo.
I miei paesani spesso mi chiedevano se volevo mettermi sul loro asino
o mulo "per riposare", io rifiutai un paio d volte. Quando
mi accorsi che ero abbastanza stanco, accettai. Fui sollevato e sistemato
sulla groppa di un asino fino alla fermata successiva, presso una fontana,
per fare colazione. Anche qui c'era molta gente e tanta allegria, con
l'organetto che ci invitava a ballare.
Arrivammo a San Lorenzo nel pomeriggio. Io ero stanco ma felice di aver
viaggiato con tanta gente e visto bellissimi luoghi, Mi sentii quasi
un eroe, orgoglioso di raccontare il mio viaggio ai miei compagni di
scuola!.

U PURTULAN
di Giuseppe Ventimiglia
Camminare
lungo i sentieri del pollino, tra i boschi di faggio, mi emoziona sempre.
Sarà perché mi riporta con i ricordi allinfanzia,
ma sarà anche perché si entra in uno stato di completa
unione con la natura. Comunque io lo faccio quasi tutti gli anni: dalla
fontana di Chidichimo al piano Mandria e qualche volta fino al casino
Toscano. A proposito di lunghe camminate, vi vorrei raccontare una storiella
che forse pochi conoscono e che a noi Sanlorenzani, quando si era piccoli,
ci raccontavano i genitori ed i nonni per dissuaderci dal chiedere di
andare alla festa della madonna del pollino, la prima domenica di luglio.
Dissuaderci perché raggiungere il santuario a piedi o con gli
asini infiocchettati a festa, ci voleva una lunga marcia di 8 ore per
andare e 8 per ritornare, oltre a 2 giorni e 2 notti di permanenza nel
bosco,sotto un capanno fatto di rami e di felci, a festeggiare con vino,
carne di capretto e organetti, ballando la tarantella pastorale in mezzo
al bosco. Ma non solo. Alcune volte succedevano anche delle vere e proprie
risse, persino con luso del coltello, con i madonnari
di Cassano Jonio, con i quali cè sempre stata una rivalità.
Questi facevano i gradassi, grazie alla nomea che portavano: i guappi
di cassano. Ma con i sanlorenzani non lhanno mai avuto vinta.
Si raccontava che persino sullincanto alla madonna nascevano dispute.
Forse perché ci si aspettava qualche grazia, per cui, avere dei
concorrenti che giocavano al rialzo dellincanto, che consisteva
in denaro da offrire al santuario , creava attriti fra le parti. In
queste condizioni si può immaginare il disagio, nel portarsi
dietro i piccoli. Comunque troppe grazie di solito la madonna non ne
faceva , tranne quelle, forse, di consolidare e portare a buon fine
i fidanzamenti nati in quel luogo dettosanto. Dunque per
convincere i piccoli a restare a casa con i nonni o con gli zii che
non andavano alla festa, si raccontava la storiella del sentiero che
portava al santuario, il quale, oltre ad essere lungo e
faticoso presentava un punto difficile da superare, una specie di passo
con una grande porta, situata circa al termine del bosco
Principessa- ricordato dalle belle foto di Costantino .,
Tutti i ragazzini non ancora in età consentita, che si accingevano
per la prima volta ad andare alla festa, per poter oltrepassare il suddetto
passo dovevano pagare una sorta di pedaggio. A guardiano del passo ci
stava una specie di grande orco che si chiamava u purtulanu.
Era un essere orripilante, sporco e prepotente, che non permetteva a
nessuno di fare il furbo. Il pedaggio che i ragazzini dovevano pagare
consisteva nel vasà u cul allu purtulanu. Beh, il
solo pensiero faceva rabbrividire. Anche perché la puzza che
emanava era talmente forte che il solo avvicinarlo avrebbe lasciato
addosso un odore talmente nauseabondo da tener lontano tutti per lintera
durata della festa. La cosa quindi funzionava, quasi tutti desistevano
. Bisognava aspettare che si diventasse giovincelli, quasi in età
da fidanzamento, per partecipare alla festa. Effettivamente era anche
loccasione per conoscersi e far germogliare nuove storie ,magari
dietro il ben volere di zie e parenti che avevano manovrato dietro le
quinte. Oppure ufficializzare fidanzamenti già sbocciati con
la benedizione della madonna. Questa è la storia del sentiero
du purtulanu, che portava al santuario del pollino. Oggi il sentiero
è cambiato. Si va con le automobili e u purtulanu
non si vede più. Forse è meglio
forse è peggio,
chi lo sa dire? Forse il viandante che percorrerà a piedi i sentieri
di un tempo , lo incontrerà ancora
chissà.

General Pico 27 luglio 2009
A tutti i Sanlorenzanni :
sono Amanda Vito , la nipote minore di un sanlorenzano : Giovanni Vito,
nato a San Lorenzo, nell' anno 1888. Non ho conosciuto molto mio nonno
perchè è morto quando io era ancora piccola, per cui,
conosco la sua storia tramite i racconti della mia famiglia. da loro
ho saputo, che Giovanni era molto legato e aveva molta nostalgia della
sua terra d'origine, parlava sempre dell'Italia coi suoi amici del quartiere
di San Lorenzo , di Alberti (paese di tanti Sallorenzani che contribuirono
alla nascita e al suo sviluppo) purtroppo non è mai potuto ritornare
in Italia , ha avuto una buona vita , qui ,in Argentina , però
non gli era possibile ritornare e neanche avere notizie della sua famiglia
in Italia .
Quando nel mese di giugno
io e mia sorella siamo stati a San Lorenzo, ho avuto un misto di sentimenti
: sono stata felice di trovare e conoscere il paesino di mio nonno che
tanto desiderava rivedere, contenta di vedere la sua casa , felice da
mangiare nel ristorante " pino loricato " ma allo stesso tempo
ho sentito un po' di tristezza , perche' credo che sia stato molto difficile
per mio nonno lasciare la sua famiglia , la sua terra.
San Lorenzo Bellizzi è un luogo meraviglioso è un paesino
bellissimo , la sua gente è molto amabile , molto gentile e veramente
, mi sono sentita, come se fossi a casa mia , ho pensato anche che doveva
essere mio nonno a stare li , con me .
Tutto era un sogno !!!!io sono nata a Alberti , un piccolo paesino che
ho dovuto lasciare tanti anni fa . so bene , come tanti di voi quello
che si sente e si prova vivere lontano dal luogo dove si nasce .
Mi sento vicina a tante cose d' Italia , ai miei amici , ai miei parenti
, alle persone che abitano a San Lorenzo , alla lingua iIaliana ( che
sto imparando ),. al suo calcio, a tante altre cose !!!
certamente , questo viaggio , mi ha dato la possibilità di conoscere
e trovare le mie origini ma e' stato per me fantastico!!!! magari ,
qualche giorno, potrei ritornare, sarebbe bellissimo !!!!!
Mi mancano le parole per esprimere tutto quello che sento!!!, scusatemi,
un grosso abbraccio per tutti
Amanda

Se tornasse
giovane farei le stesse cose che ho fatto fin qui.

I miei 70 anni (
Peppino )
Mi racconto
un po'.
Ragazzo cresciuto
a Sermo in una famiglia numerosa, 8 fratelli più genitori 10-
Io già da piccolo avevo il mio compito di lavoro: ( curavo i
tacchini ) man mano che si cresceva si accedeva, compiti superiore,
si passava di grado nella cura degli animali- es. maiali, pecore, capre,
mucche, buoi da lavoro, muli per il trasporto.
Ogni componente, della famiglia aveva il suo compito- 5 maschi 5 femmine-
Ai maschi generalmente, li toccava di occuparsi delle bestie e dei campi,
alle femmine il compito;
della casa degli e animali domestici-
A scuola sono andato 7 anni- per me l'anno scolastico iniziava a gennaio,
perché in autunno avevamo molto da lavorare nell'azienda, es.
raccolto, semina, vendemmia, fiere, ecc.
Nonostante tutto, io a scuola recuperavo e a fine anno risultavo uno
dei più bravi della classe, più volte capoclasse- il mio
maestro era Vincenzo Mazzei
A 21 anni vado militare e dopo il congedo emigro a Milano, dove mi sono
fermato a lavorare e in seguito ho messo casa.
Nel 1969 mi sono sposato con Caterina ( splendida moglie, splendida
mamma, splendida nonna )-
Poi le 2 splendide figlie Maria Pia e Monica- le bellissime e brave
nipotine Gaia, Silvia e Teresa-
Sono felice di essere così come sono. Peppino.

Estate
dellanno 1970 - Il mio viaggio a San Lorenzo Bellizzi
E
una giornata assolata e calda, tipica dellestate. Siamo diretti
a San Lorenzo Bellizzi. Le ginestre e i pruni fiancheggiano la strada
stretta e polverosa che sinerpica sui pendii tortuosi della montagna.
A mano a mano che si sale, il paesaggio offre una varietà di
colori e di profumi. I fichi dindia, dal loro cladodio piatto
e pungente, si mostrano nel loro splendore offrendo alla vista squisiti
frutti che occhieggiano accattivanti per le loro gradazioni di colore
intenso, dal giallo
oro allarancione del sole infuocato che batte sulla terra bruciata.
I rovi spinosi, dai lunghi rami intricati ed irraggiungibili nella raccolta
dei loro frutti neri, lucenti, dolci, dissetanti, gustosissimi al palato
e trionfanti nella loro regalità in attesa di strappare indumenti
e graffiare braccia e gambe nude a ignari visitatori, offrono volentieri
le loro amaranti more ad animaletti che vi si posano dolcemente e delicatamente
per succhiare in tutta tranquillità il liquido zuccherino ed
ingoiarne i numerosi semi. I finocchietti selvatici, dai fiori gialli
e semi aromatici e piccanti per ghiotti uccelli e per salsicce nostrane,
fanno mostra di sé lungo il ciglio della strada ed invitano i
passanti a fermarsi per ammirare il meraviglioso spettacolo della natura.
Laglio selvatico dal suo profumo intenso par che dica: raccoglimi!
raccoglimi! Mentre lorigano odoroso e la nepitella selvatica dai
fiori purpurei fanno capolino tra lerba argentea mossa da un timido
venticello che offre un po di frescura senza sconvolgere la pace,
la quiete e la serenità dei luoghi. Il viaggio continua. Il paesaggio
cambia aspetto. Si vedono burroni che sprofondano ripidi, terra arsa
dal sole, anfratti, rifugi sicuri per animaletti selvatici che guardano
stupefatti turisti per caso. Un immenso silenzio è rotto dal
cicaleccio di uccellini e dal frinire continuo delle cicale tra le bionde
stoppie dei campi di grano e dei papaveri in fiore.
Finalmente si giunge in un luogo incantevole: un pianoro incastonato
tra altura e altura. Gli occhi si perdono nellammirazione di querce
maestose e lecci sempreverdi che protendono i loro lunghi rami verso
il cielo turchino. Lo sguardo si posa su api che volano di corolla in
corolla, di insetti che ronzano tra i fuori e su file di formiche operose,
intente a trasportare provviste per linverno.
Una sorgente dacqua freschissima sembra dire al viandante: fermati
qui, rimani ancora un po, bagna i tuoi piedi e le tue mani, rinfrescati
il volto sudato nelle mie acque limpide e cristalline, dopodiché
riprendi pure il tuo cammino!. Tutto intorno sembra che le alture proteggano
questo luogo incantato, non contaminato dalle mani delluomo. Si
ode un suono lieve di campano appeso al collo di animale al pascolo.
Poco dopo le pecore, seguite dal pastore e dai cani, fanno la loro comparsa
per ristorarsi allacqua della fonte ed alla frescura delle piante.
Il pastore, con un bastone in mano, si toglie il cappello e, con la
curiosità di chi non vede spesso gente durante la giornata, saluta
e chiede bonariamente al forestiero il luogo di provenienza e dapprodo.
Dopodiché si disseta, indica il cammino ed augura buon viaggio.
Con lanimo più sereno e con la prospettiva imminente dellarrivo
al luogo stabilito, si prosegue con tenacia. Tra curve, tornanti ed
inizio di brevi discese, ecco, sintravede una casupola in pietra
e poi unaltra ancora che, situata sul ciglio della strada, mostra
i segni della mano delluomo: rondelle di grosse zucche allungate,
sbucciate e private dei semi e peperoni dal rosso acceso appesi a fili
o bastoni di legno per lessiccazione e la conservazione per il
lungo periodo invernale; cesti di vimini situati in bella mostra e costruiti
dal padrone di casa allombra della grande quercia ed utensili
intagliati con mano esperta ed operosa, ricordo di un tempo andato;
lana cardata da dita veloci di donne per soffici guanciali e morbidi
materassi; pecore ricoverate nel recinto che, accovacciate allombra
di un muretto, drizzano le orecchie per ascoltare il silenzio rotto
dal rombo di un motore. Un gesto della mano invita a fermarsi un poco.
Laccoglienza è confortevole. Tra un caloroso saluto ed
un cordiale scambio di idee di circostanza il percorso riprende.
Finalmente un cartello stradale indica il nome di un paesino: San Lorenzo
Bellizzi, protetto
dallomonimo santo. E un paesino molto raccolto, sembra un
presepe con casette basse in pietra, con scalinate senza protezioni
e con balconi ornati di piante aromatiche, messe a dimora in secchi
vecchi di fortuna. Donne vestite di nero siedono sulla scala con le
comari a ricordare il tempo della loro giovinezza, a raccontare avvenimenti
come la celebrazione di un matrimonio tra giovani sposi pieni di sogni,
aspettative e speranze per un futuro radioso oppure lo scroscio della
pioggia quando scende precipitosamente e inonda le strette vie trasportando
con sé tutto quello che incontra lungo il
percorso. La quiete è interrotta da grida e schiamazzi di bambini
che corrono e saltano nelle viuzze tra galline che razzolano impassibili
alla ricerca di formiche e vermetti ignari di essere divorati. Il raglio
degli asinelli rompe la monotonia della giornata apparentemente sempre
uguale per acquietarsi nel momento più atteso: masticare lentamente
lodoroso e fresco fieno. Anche i maiali che sembrano dormienti
davanti alle porte con il loro grugnito intermittente ed il loro caratteristico
odore, ostacolano il passaggio, ma rendono gioiosa la vista al ricordo
della preparazione di saporiti prosciutti e gustose salsicce.
E bello trovarsi in questo borgo antico ed è lieto sentirsi
accolti ed amati come se si fosse nati qui in questo meraviglioso ambiente
custodito da occhi indiscreti e conservato nelle abitudini e tradizioni
antiche susseguitesi di generazione in generazione: ecco da dove derivano
tanta pace interiore e pochi affanni se non quelli per la pioggia se
ne cade tanta, per la siccità, per la neve, per la grandine o
per il ghiaccio.
Gente saggia che in cuor suo sa che questa è la vita, non cè
da avvilirsi più di tanto perché cè un tempo
per odiare ed uno per amare così come diceva Qoelèt. Si,
questo è il vivere semplice, sereno e tranquillo senza laffanno
per il domani, ma confidando sempre in Dio e nella buona sorte. Dove
vai? Da dove vieni? Siediti, siediti, fermati un poco! Tanto la giornata
è lunga e possiamo scambiare due parole!
Con questa semplicità di pensiero e di sentimento si allacciano
i rapporti umani per non sentirsi soli e non far sentire solo laltro,
ma far capire che in ogni momento anche doloroso si può contare
sullaiuto reciproco, sulla solidarietà e sullamore
verso il fratello. Gente accogliente che sa vedere con gli occhi del
cuore: bastano pochi gesti, parole appena accennate da comprendere al
volo, modi di dire molto creativi ed esclamazioni per condensare tutto
un discorso.
Perle di saggezza da interiorizzare ed imparare a farne buon uso al
momento opportuno, Persone generose ed accoglienti verso il forestiero
non soltanto a parole, come: tras, tras, bevi nu bicchir e mangi
na pasta secc; il tutto accompagnato da gesti affettuosi e da
un cuore grande grande sempre pronto a donare. Il tempo passa lento
lento, ognuno ne gode e se ne appropria, ma con tutta la bontà
dellanimo viene regalato volentieri sia nei momenti gioiosi che
in quelli tristi per gioire con laltro e per portargli conforto
e sostegno sia spirituale che materiale.
Parole pensate con la mente, uscite dal cuore e pronunciate con labbra
sincere e col sorriso negli occhi, sono molto belle, ma ancora più
significativi sono gli esempi ed il modo semplice e leale, ma ricco
di significato e sentimento.
Un grazie immenso a queste persone che nella semplicità, nella
gioia e nella consapevolezza che Dio è sempre con noi e ci protegge,
ci regalano momenti di pace, di fiducia e di speranza.
Lina
MAZZUCCA

IL
VIAGGIO DELLA MEMORIA
di Quintino Palazzo
Giuseppe
PITTELLI
Fedele
Gugliotti guardava fisso questa fotografia e, parlando, la sua memoria
riportava a galla pensieri vetusti trasmessi dalla sua gioventù,
mi ricordava i tempi trascorsi e mi raccontava i suoi ricordi.
Mi raccontava dellamicizia profonda che legava questo gruppo di
amici nati verso la fine deglii anni venti e sentivo la sua anima viaggiare
verso questi lontani ricordi mai scalfiti dal tempo. Percepivo nella
sua voce la dolcezza del racconto di una fiaba e vedevo ancora nei suoi
occhi i visi amati di coloro che hanno terminato il loro viaggio terreno
e hanno lasciato tanti ricordi.Fedele porta ancora, sempre con sé,
conservate nel suo portafogli, le loro fotografie, ogni fotografia gli
ricorda qualcosa sopita nel tempo, ma riposta nella sua memoria. E
proprio vero che il cuore dei morti rimane ai vivi.
Cerano
i disagi del tempo, ancora leco ed il rumore della guerra, tanta
incertezza nel futuro, ma tanta voglia di vivere
Questi studenti erano costretti a lunghi percorsi a piedi per raggiungere
le sedi degli studi o a dorso dellasino per raggiungere Cerchiara
e prendere il postale. Oggi un ipotesi remota, relegata a qualche ricordo
raccontato da chi ha vissuto quei lontani tempi. Giuseppe Pittelli gli
recitava le sue poesie, ma lui non riusciva a capirne il significato,
anche gli altri amici, erano compagni inseparabili di vita
, Italo
Fallace, Reginaldo Mazzei, Giuseppe Faillace, Paolino Zipparri, Alfredo
Cavalieri e tutti gli altri
una parte della propria esistenza
vissuta insieme e totalmente condivisa, una sensazione di gioia, di
comunione con il mondo.Erano tutti legati al proprio parroco Don Vincenzo
Mazzei che li aveva trasformati in attori di teatro, ognuno recitava
la sua parte nella scena e nella vita, ignari del domani, ma tanto ottimismo.
Si
andava al mare
a Raganello
perchè Raganello era il
loro mare.
Giornate
passate a divertirsi, a chiacchierare, a programmare, a proiettare nel
futuro la realizzazione dei propri sogni, a parlare delle ragazze della
loro età, di una canzone da cantare sotto la loro finestra, a
sognare amori maliziosi, complicati dal luogo e dallambiente,
amori impossibili da vivere nella normalità. E le ragazze nella
loro affascinante giovinezza, intimamente vivevano gli stessi sentimenti
e desideri, repressi però dalla concezione di vita legata al
tempo ed al luogo.
A loro era preclusa anche la possibilità di seguire corsi di
studi per non mettere p a rischio la loro purezza fisica o morale
.Un
giorno, ne erano certe, anche loro avrebbero realizzato i loro sogni
di un matrimonio con il ragazzo che aveva conquistato il loro cuore,
sarebbe arrivata anche per loro la gioia, la resurrezione. Ci si preparava
ad essere gli uomini del domani, ma, isolati dal mondo, chi avrebbe
mai ipotizzato che questo gruppo damici
in assenza di danaro,
avrebbe prodotto: avvocati, notai, medici, sacerdoti, letterati, professori,
stimati professionisti
una generazione questa veramente straordinaria.
Intanto si passavano le giornate in compagnia a girovagare per il paese
o adagiati su sedili di pietra a sciupare la giovinezza, sempre proiettati
nel domani, dominati dalla voglia di dominare i propri pensieri, di
riuscire nella vita, di immaginare un avvenire di gioie. Le loro voci
risuonavano nel vuoto e si perdevano nel silenzio e vi era anche solitudine,
un triste senso di pace. A sera il canto di qualche uccello notturno,
lo stormire delle fronde, il rumore dei loro passi nelle viuzze strette
e tortuose, chiuse tra muri sgretolati che davano tristezza al luogo...
il chiarore della luna illuminava i loro passi durante le lunghe passeggiate,
le nuvole incoronavano il paese assopito nella sua desolata calma che
trasmetteva una sottile angoscia.Le stelle vegliavano dallalto,
la luce lunare, pallida e sottile, proiettava una malinconica bellezza,
ma tanta inquietudine, vaga e indefinibile, sullincertezza del
domani! Poi il malinconico silenzio della notte, laria notturna,
calma e densa di profumi, penetrava attraverso le finestre; gli eterni
sogni continuavano a vivere anche nel sonno.
Poi
quasi tutti si lasciarono dietro il paese ed i ricordi per nuovi percorsi
di vita altrove, spinti dalla necessità, ma anche dalla smania
del nuovo e del lontano, dallansia di liberarsi, di infrangere
le catene, dal giovanile desiderio di terre lontane, verso orizzonti
più vasti, a rompere il ritmo pacato, uniforme, di quella esistenza,
e scrivere la propria storia cammin facendo.
Le
case dove loro hanno vissuto la loro giovinezza, ora disabitate o abitate
da altri, richiamano laloro immagine e con tanta malinconia ci ricordano
che il tempo scorre come l'acqua del fiume e di questo pur vivido passato
ci restano solo i ricordi ed i rimpianti.
Fedele
andò a lavorare in Germania ove per circa ventanni esercitò
il suo mestiere di maestro calzolaio.
|
Fugge
l'ora foriera di ricordi...
la dama si è sguarnita di pedine!
di stanchi volti a cui volevo bene
cosa rimane nelle vuote mani?
solo questo "finale di partita" !
|

IL
TEATRO POPOLARE
che cosè il teatro?
1) Gigino Mazzei
2) Nicola Pittelli,
3) Italo Faillace,
4) Don Vincenzo Mazzei,
5) Alfredo Cavalieri,
6) Faillace Giuseppe (monaco),
7) Leopoldo Zipparri (non il fratello di Paolino) ,
8) Paolino Zipparri,
9) Reginaldo Mazzei, |
Da
sinistra seduti:
10)
Leonardo Leone
11) Enzo Leone
12) Peppino Chiaradia,
13) Ciccio Scaldaferri,
14) Gildo Cavalieri,
15) Peppino Zaccaro,
16) Amedeo Cavalieri (fotografo
|
Vuole
rappresentare i valori di una comunità, della gente che vive
insieme supportata dalle proprie tradizioni. E il racconto della
vita di tutti i giorni, la rappresentazione deiproblemi, delle speranze
e delle paure.
La
foto sopra, davvero storica è infatti, testimonianza tangibile
di un primo vagito culturale, prima delle lotte per ottenere i
servizi più essenziali.
E
con vivo piacere che presentiamo questa fotografia, davvero rara,gentilmente
fornitaci dal Dott. Costantino Fallace - con i personaggi
del primo teatrino di San Lorenzo nell'agosto del 1947! Quasi tutti
questi personaggi hanno poi raggiunto importantissimi traguardi

Il
vecchio cimitero
Da
ragazzo, nella mia campagna, a sera, sotto la splendente luce lunare
mi sedevo spesso, solo, su un sasso sul bordo del canale vicino casa
ad ascoltare lo sciabordio dell'acqua che scorreva in quel luogo solitario
e si perdeva tra i sassi, lungo il percorso.
La totale solitudine mi faceva pensare spesso alla morte. Anche quella
solitudine si avvicinava alla morte. il primo funerale che io ricordo
non era un vero funerale: vedevo un morto per la prima volta.
Mio zio era morto in campagna, una campagna distante molti chilometri
dal paese. E' stato trasportato faticosamente, dalle Valline, a braccia
dai pochi parenti e conoscenti tra le anguste e pietrose vie mulattiere,
lungo tutto il percorso fra infinite difficoltà dalla campagna
scoscesa fino al paese, su una barella: un telo legato a due assi di
legno. Quando capii che lo zio era morto, non riuscivo ad immaginare
come poteva essere lo zio da morto. Avevo spesso chiesto alla mamma
perché uno moriva, ma non ero mai riuscito a capirlo, i segreti
della morte continuano a persistere. Quando il triste e povero corteo
passò vicino alla nostra campagna, ci accodammo per seguire il
feretro fino al vecchio cimitero, allo Sgotto.
Era, dunque, il primo morto che ho visto, immobile, disteso sulla barella.
Il mio ricordo assomiglia a un brutto sogno ormai sbiadito. Quel cimitero
mi è rimasto sempre nella mente. Anche una zia è morta
in campagna: era stata morsa da un calabrone velenoso mentre mieteva
il grano, la zia non aveva resistito al veleno iniettato da questo insetto.
Nel vecchio cimitero, inattivo ormai da quasi quarant'anni, ora, si
entra spingendo uno stridulo cancello arrugginito, legato ad un supporto
con una catena, anch'essa arrugginita: ogni visita è un momento
d'angoscia: dentro, tanta tristezza e tanta solitudine. In questo piccolo,
vecchio cimitero c'è seppellita gente conosciuta da ragazzo,
che tante volte, incontrandola, avevo salutato e che è ancora
nei miei ricordi ormai sbiaditi. Nomi tante volte sentiti pronunciare
che rievocano angosciosi sentimenti vissuti negli anni lontani della
fanciullezza.
Mi tornano alla mente i muretti di pietra nella piazza dove si è
seduta tanta gente a chiacchierare, e che ora non c'è più,
lo spiazzo dietro la chiesa dove si giovava con piastrelle di pietra
fino al buio della sera. Giochi poveri per gente povera. Avevo seguito
anch'io qualche funerale forse per curiosità più che per
i sentimenti profondi che scaturiscono dinanzi a una dipartita verso
l'eternità.
Restava l'eco dell'ultimo discorso di rimpianto e di elogio pronunciato,
a volte, all'uscita dalla chiesa. Dopo la messa funebre la folla si
dispiegava in un lungo corteo dalla Chiesa del Carmine salendo lungo
le vie strette ed acciottolate e poi s'inerpicava per un sentiero che
portava al cimitero in cima al paese, sempre con la bara a spalla. Il
viandante aveva finito il suo percorso: era l'ultimo viaggio terreno
e dava ora l'ultimo saluto a questo mondo e gli accompagnatori ora consegnavano
la sua anima a Dio.
Qui ancora strazianti pianti, come usa la gente del Sud, e la disperazione
dei parenti. Poi calava la sera ed il buio. Il morto sostava ancora
nella piccola cappella, appena a destra
dell'entrata, ora mezza diroccata, scalcinata e senza porta, sul muro
centrale ancora una piccola croce di legno legata ad un ferro, ancora
qualche polveroso vaso di fiori imperituri.
Il morto veniva poi seppellito all'indomani. Il custode del cimitero,
un vegliardo che chiamavamo "Corinivir" per la sua proverbiale
freddezza d'animo, dava al morto l'ultimo saluto o rimprovero, anche
calci alla bara (si diceva), per quello che aveva fatto nella vita prima
del suo definitivo distacco. Poi i parenti ed amici tutti raccolti in
casa o intorno al focolare, piangevano ancora il morto: si consumava
un altro rito funebre che durava fino a tarda notte fra pianti, strazi,
disperazioni, singhiozzi, sbiascicati lamenti dinanzi al doloroso distacco.
Le donne angosciate con i capelli spettinati piangevano disperatamente,
giungevano anche a solcarsi il volto con le unghie. Gli uomini cercavano
di nascondere le lacrime: non era mai dignitoso per loro farsi vedere
piangere. Poi altri amici e conoscenti a presentare la loro cerimoniosa
pietà, già predisposti al rito della rappresentazione
del proprio dolore per questo distacco. Poi, esaurite le parole, volti
muti, silenziosi con gli occhi fissi al suolo. Qualche parente impietosito
portava loro qualche cosa da mangiare per interrompere il lungo digiuno
connesso al dispiacere. Si consumava questa povera cena quasi con colpa:
veniva interrotto il sacro dolore, per un rito materiale, non c'era
posto per alcun conforto dopo la separazione ed il dolore, anche tanta
partecipazione e tanto affetto non riuscivano a dare pace al cuore.
Nelle notti buie tutti evitavamo di attraversare la via del cimitero
allora un luogo isolato, dovendoci proprio passare, si intonava qualche
canzone solitaria per farci coraggio. Il cimitero dormiva solitario,
i morti non erano mai morti del tutto, potevano risvegliarsi, potevano
apparirci di notte, venirci in sogno e dare rimproveri o suggerimenti.
Nei dintorni, di giorno, qualcuno portava al pascolo la sua capretta,
già ricchezza per la famiglia per il latte che riusciva a dare.
Chissà che un giorno questi morti che hanno continuato a vivere
nei ricordi, quei volti su cui era scalfita la storia della propria
vita, visi sempre presenti che ci hanno lasciato strada facendo apriranno
gli occhi in un sorridente mattino dopo un lungo sonno ristoratore e
torneranno tra noi per iniziare un'altra vita! Forse è una chimera,
è il sogno dell'eternità.
Le poche tombe non hanno resistito alla voracità del tempo: tempeste
violente, venti vorticosi, tante piogge, tanta neve, tanti anni. Si
presentano scalcinate e diroccate, screpolate, qui solo la morte è
eterna. Tra le ossa dei morti nascono erbe, fioriscono gelsomini e violette.
In mezzo, nel piccolo e vecchio cimitero abbandonato, veglia ancora
la tomba dell'arciprete Don Vincenzo Mazzei, da morto ancora in mezzo
alla sua gente. Li il tempo si è fermato. Croci arrugginite con
un nome quasi non più leggibile. Il sole del giorno dà
calore al luogo, la luna, nel fresco della notte, come lampada dal cielo,
rischiara e veglia su queste tombe: l'ombra dei pochi cipressi intrisa
di luce lunare si spande su queste minuscole croci, le loro tristi foglie
cadute ammantano il prato. L'arcobaleno di vivi colori si incurva dietro
le timpe, l'orizzonte del cielo si unisce alle cime delle montagne del
Pollino, i raggi inclinati del sole danno l'ultimo saluto, le nuvole
si rincorrono nel cielo. Chi erano queste persone che avevano affollato
il paese e le campagne, dato vita a questi luoghi e che ora non sono
più? Questa gente ha calpestato vie, stradine tutte sassi, colline
irte, viottoli, vicoli e sentieri, vallate, montagne, rocce, ha visto
il sorgere del sole ed il suo tramonto, la neve che seppelliva le misere
case, ha vissuto le amarezze e le gioie di una vita fatte di magre ricchezze,
questi uomini che nelle sere d'inverno affollava le piccole cantine
seduti intorno a un rustico tavolo dove la sera trascorreva lentamente
con dinanzi allo sguardo un quartino di vino, pronti anche per una partita
a carte, e le solite storie raccontate già tante volte. Gente
che ha visto sfiorire la sua giovinezza e consumare la sua esistenza
nel duro lavoro dei campi. Ha arato la terra, zappato la vigna, condotto
il suo gregge al pascolo, ora riposa nel vecchio cimitero: un riposo
eterno. Hanno raccontato le loro avventure belliche, gli scampati pericoli
di morte tante volte molto vicina. Mio padre, mi raccontava di una bomba
scoppiatagli a lato durante la ritirata a Vittorio Veneto, (insignito
poi del cavalierato), creando un fosso; deve la vita ad un compagno
che lo ha estratto da quel fosso, per sua fortuna, indenne.
Mi chiedeva se al Nord - dove lui, "ragazzo del '99" aveva
fatto la guerra - c'erano ancora quei treni, quelle gallerie, quelle
stazioni: ricordi nostalgici ancora stampati nella sua memoria, per
una vita tanto diversa per chi fino a 16 anni aveva vissuto in una remota
campagna. Non era raro a tarda sera all'ora del ritorno a casa, barcollanti
e felici dopo aver affogato le tante tristezze di una povera esistenza
in qualche bicchiere di vino, sentire allegre aree di vecchie canzoni,
già cantate dai nonni e dai padri echeggiare nell'aria serena
a rallegrare anche il sonno di chi già dormiva.
Le donne restavano in casa e la sera, alla luce della piccola lampada
a petrolio, filavano davanti al focolare, per fare calze e maglie di
lana grezza per l'inverno per quando arrivava il vero freddo. Di giorno
giungeva il fioco tintinnio dei campanelli delle piccole mandrie, il
belare delle pecore che, quasi adagiate alle falde scoscese della montagnella
dirimpetto al cimitero, nei terreni e nelle vigne quando ancora non
c'erano le case, segnalavano la loro presenza e davano vita a questi
luoghi silenziosi, vivacizzati solo dallo zirlìo dei grilli e
cicale e dal canto degli uccelli. Non era raro vedere le gru emigranti
solcare il cielo in lunghe ed interminabili file e noi a guardarle gli
occhi volti al cielo. Quanta gente ha concluso qui la sua esistenza!
Ora sulle loro ceneri veglia una misera croce ed il silenzio della notte:
Ora questo cimitero non accoglie più chi abbandona questo mondo.
Il tic-tac dell'orologio del campanile ci ricorda che, comunque, prosegue
il nostro cammino verso il cielo. Noi non sappiamo più nulla
di loro, ma il passato regna ancora su di loro. La loro anima aleggia
ancora in questo luogo triste ed abbandonato. Le notti profonde si uniscono
a questa pace monotona e triste che tiene seppellita una parte di storia
che ora più nessuno ricorda e che non interessa più a
nessuno. L'emigrazione ha portato lontano tanta gente che in molti casi
non è mai più tornata, hanno abbandonato i loro morti,
solo con se stessi. Tanti di loro ci hanno anche lasciato, strada facendo.
Sento nostalgia per questa gente dal cuore antico, del loro mondo contadino
miseramente essenziale, della loro unica lingua, il dialetto dei loro
padri, ricordo i loro abbigliamenti, le loro usanze. Resta nei miei
ricordi di bambino questa gente che popolava la piazza all'uscita dalla
Chiesa nei giorni di Festa, la processione della Domenica delle Palme
allorché anche i pini divelti nella Timpa e portati in processione
sembravano camminare con la gente che procedeva contenta e composta.
I ritorni dai sentieri delle lontane campagne percorsi a piedi per ore
di cammino a stanchi passi con la zappa sulle spalle o a cavallo dell'asino,
e le donne con il barile d'acqua sulla testa che tornavano dalla fontana.
Ricordo le sere passate al lume della piccola lampada a petrolio nella
modesta casa di campagna a Piano del Medico, una pace cimiteriale rotto
dall'abbaiare fioco dei cani in lontananza confuso con le infinite voci
della natura, in perfetta simbiosi, noi e l'infinito in un irriducibile
isolamento. Si aspettava con tanto ardore la festa della Madonna del
Pollino e si sperava di poterci andare: un lungo viaggio a piedi attraverso
la montagna: una festa da poter raccontare: tre giorni di vivacità,
un'occasione di grandi incontri: i gruppi provenienti a piedi dai vari
paesi circostanti si incontravano lungo i sentieri della montagna per
poi proseguire insieme: si beveva, si cantava, si ballava, di giorno
e di notte. Si attraversava il cuore del Pollino.
Ci sono stato anch'io avrò avuto 14 anni e ci sono andato da
solo: fu una vera pazzia, ma non ho mai dimenticato questa avventura.
I giovani andavano alle feste di compleanno e di fidanzamento per ballare
la tarantella, Si ballava anche nell'aia, se la raccolta del grano era
stata copiosa, si ballava e si festeggiava se la raccolta dell'uva prometteva
un buono ed abbondante vino. Ogni anno torno a rivedere questo cimitero:
una desolata finestra verso un remoto passato e sempre mi pervade un'amaro
sconforto, il totale senso del nulla.
Quintino Palazzo

NOI
EMIGRATI DA SAN LORENZO BELLIZZI
Già.....noi
emigrati da San Lorenzo Bellizzi!.
Emigrare
è stato sempre difficile e doloroso, è sempre difficile
lasciare... perché anche il cuore ha le sue ragioni. Si lasciano
persone entrate vitalmente nella nostra esistenza, magari insieme, si
sognavano altri ideali e lasciare... diventa doloroso, apre ferite nel
cuore, si frammentano i giovanili, primitivi sogni, si avverte un senso
di vuoto, di solitudine, di sradicamento, di non appartenenza, un'assenza
penosa. L'abbandono della propria terra, della propria cultura genera
angoscia, un dramma interiore, un vuoto esistenziale, quasi una "tenera
volontà di pianto".
Allora
partire è sempre un po' morire? No. Pur vero, preferiamo pensare
che partire è come rinascere: si parte per acquisire conoscenze,
per divenire, per essere, per (a dirla con Dante): "divenir del
mondo esperto
"; per costruire un domani più sicuro
ai nostri figli che dovranno trasformarsi negli uomini del futuro, ...ma
si soffre, comunque, per
questo passaggio:
"Quanto
è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!
tratto dalla speranza di fare altrove fortuna..... tornerebbe allora
indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso."
(A. Manzoni)
Ogni
partenza, dovunque avvenga, genera sentimenti sempre uguali ed universali:
si parte, ognuno con il suo fardello di ricordi e speranze.
Partire
è mettersi in cammino: il cammino dell'uomo verso la propria
realizzazione. L' emigrante deve sempre guardare al futuro, pronto a
cogliere ogni occasione, attento al turbinio dei segnali.
Più
si viaggia, più si cresce, attraverso un processo - molto complesso
- di inculturazione, ma si resta sempre tenacemente attaccati alle proprie
radici.
E'
sempre difficile: c'è il conforto di poter offrire il nostro
lavoro, ma ci vuole coraggio al cospetto di una ridda di pensieri incerti,
anche se illuminati dalla speranza.
E'
difficile partire perché la meta riserva tante sorprese e tanti
imprevisti, nascono ansiosi interrogativi, perplessità e paure
e la consapevolezza che la vita cambierà, che la vita è
già cambiata.
Si
cercano idee, si fanno progetti, si raccolgono tutte le nostre forze.
Si progetta per edificare il domani, per costruire il proprio futuro
sulla roccia.
E
le rocce, figure retaggio della nostra fanciullezza, sempre li mai scalfite
dalle intemperie, ci invitano ad emularle, a costruire il nostro futuro
sulla roccia consono all'insegnamento evangelico, e la forza ed il coraggio,
l'audacia e la perseveranza devono
illuminare i nostri passi.
Di
volta in volta sempre diverse situazioni mettono a nudo le nostre fragilità
umane, ma non si deve tornare indietro, non si deve essere mediocre.
La mediocrità è quasi un fallimento.
Il
nostro protettore S. Lorenzo ci protegge da laggiù: andate io
sono con Voi, sempre, tutti i giorni.
Quando
noi torniamo a San Lorenzo, non torniamo soltanto per i parenti, per
gli amici, per il paese, per le meravigliose e solitarie rocce, le montagne,
il campanile che scandisce le ore della giornata, Raganello, le vie,
la piazza, la chiesa, le case, l'aria, l'acqua, tutti riuniti in un
vivace ricordo che tanto ci lega al nostro paese.
Torniamo anche per ritrovare quella parte di noi stessi che, partendo,
abbiamo lasciato li. Lì c'è sempre un pezzo della nostra
anima che non ha voluto emigrare e ci porta ad immergerci in una dimensione
quasi onirica nell'amorevole ritorno alla memoria dei sogni frantumati,
ma vitali nella nostra esistenza, a ricordarci che le nostre radici
sono rimaste qui.
L'Associazione
sanlorenzana-lombarda, informale ed evocativa, ha lo scopo di ritrovarci
tutti, per un pranzo in qualche ristorante delle colline lombarde per
trascorrere una giornata in compagnia, conversare, chiacchierare, programmare,
per parlare, nel nostro originario linguaggio, del tempo trascorso e
delle cose belle vissute, dei ricordi, dei progetti, uscire dalla frenetica
quotidianità per immergersi, per una giornata, in una dimensione
tutta nostra in seno alla terra che ci ha accolto. I ricordi ci consolano,
non perché si vive o si deve vivere di ricordi, ma è un
invito da un'epoca lontana, a recuperare, per qualche momento, quello
che siamo stati, in una specie di ritorno alle origini
a dispetto
del tempo che scorre impercettibile.
Noi
Sanlorenzani siamo uomini di tenace volontà, duri come le rocce
che ci hanno sempre protetti in un grandioso abbraccio, positivi e caparbi,
gente di cuore, gente che lavora, riusciamo quasi sempre nei nostri
progetti anche se soli con noi stessi.
Mi
risuona prepotente nella memoria l'eco della poesia di Giovanni Pascoli:
"Ascesi
senza mano che valida mi sorreggesse.../...E salgo ancora, da me, facendomi
da me la scala, tacito assiduo;.../ ...Da me, da solo, solo con l'anima.../...salgo;
e non salgo, no, per discendere ma per udir scrosci di mani, simili
a ghiaia che frangono...
Ma,
mi torna alla mente - con soffusa tristezza - anche il motivo del «El
viajero» del poeta spagnolo Antonio Machado: Il viaggiatore («l'emigrante»)
che ha il volto del reduce sconfitto, che non ha trovato la terra del
sogno: il «lontano lito» indi, un graduale spegnersi delle
illusioni, un progressivo invecchiamento. Un salto, un vuoto biografico,
un sogno di gioventù «non mai vissuta», come se non
avesse mai viaggiato e vissuto: un viaggio fallimentare, il suo, concluso
con il ritorno al luogo da cui era partito nella "sognante età".
Sta
di nuovo tra noi il fratello caro,
nella penombra del salone avito:
lo vedemmo partire un giorno chiaro
(sognante età!) verso un lontano lito.
Oggi v'è ormai tra le sue tempie, argento,
un ciuffo grigio la sua fronte cela;
e nei suoi sguardi il freddo turbamento
un'anima ancor esule rivela:
Agli alberi d'autunno i rami gialli
si sfogliano nel parco smorto e vecchio.
La sera, dietro gli umidi cristalli,
si colora, e nel fondo dello specchio.
Il volto del fratello si schiarisce
soavemente. Fioriti disinganni
dorati dalla sera che languisce?
Ansia di vita nuova in nuovi anni?
Rimpiangerà la gioventù perduta?
Lungi restò - la grama lupa - morta.
La bianca gioventù non mai vissuta,
teme che torni a urlare alla sua porta?
Sorride al sole d'oro
della terra di un sogno non trovata?
Vede il suo scafo arare il mar sonoro,
d'aria e luce la bianca vela enfiata?
Egli ha visto cader negli albereti
foglie vizze d'autunno, le odorose
fronde dell'eucalipto ed i roseti
un'altra volta con le bianche rose...
Questa pena, ch'è dubbio e nostalgia,
il tremor d'una lacrima reprime,
e un gesto di virile ipocrisia
nel suo sembiante pallido s'imprime.
Serio ritratto alla parete splende
ancora. Noi tutti divaghiamo.
Nel grigiore domestico s'intende
il ticchettio del pendolo. Taciamo.
(Antonio Machado)
Quintino
Palazzo
Tutti
gli esseri umani sono esuli. Siamo nati e non sappiamo perché,
moriremo e non sappiamo perché. Ognuno è un profugo perché
non sappiamo nulla della nostra missione su questa terra. Patisco da
quando ho cominciato a capire.
(I.B. Singer)

ESULI
-olio su tela-
(V.Tarantino)

Quest'opera si trova presso la "Art Gallery of New Millennium"
di Schffhausen-
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Approfitto di questo scritto
dell'Amico Quintino Palazzo sull'emigrazione dei Sallorenzani.
Mio padre è stato un'emigrante, prima in Germania e poi in Svizzera.
Mi ha insegnato molte cose, prima di tutto il rispetto per il diverso,
per chi bussa alla porta, per chi non è stato fortunato, per
chi lotta giorno dopo giorno per sopravvivere, per chi ruba perchè
ha fame, Sì anche per chi ruba.
Ho dipinto questo quadro per lui, ascoltando le sue storie di emigrante
in Germania. Quando essere emigranti significava dormire in baracche
costruite apposta per loro, essere trattati come gli ultimi degli ultimi,
avere la possibilità di tornare tra i propri cari, se tutto andava
bene, solo due volte in un anno. Solo l'orgoglio di uomini, solo la
forza e l'amore per le famiglie lontane li faceva sopravvivere e dava
loro coraggio e forza per affrontare umiliazioni e fatiche. Questi
uomini soli in grandi città vuote, soli tra le luci dei grattacieli,
soli con la sofferenza, soli con i loro ricordi.
Uomini pensierosi e scarni con, volti sofferenti, con lo sguardo diretto
nel vuoto.
Sono ombre senza volto con un'anima pensante ma inesistente per tanti
che possono osservarli con indifferenza.
Questo solo per dire: Ricordiamoci di loro" .
Vorrei citare questo breve
scritto di Enzo Cuscito molto significativo.
"Quando avverrà
il giudizio, Gesù non porterà a testimone l'agenda delle
presenze a liturgie e sacramenti, né avrà interesse sulla
provenienza etnica, culturale e religiosa degli uomini. "Al tramonto
della vita, saremo giudicati sull'amore" aveva scritto San Giovanni
della Croce. E, stando alle parole del Cristo, sull'amore donato ai
poveri, ai miserabili, ai dimenticati, agli stranieri. Purtroppo. Purtroppo
per leghisti e per i fanatici della superiorità della razza,
della patria, della religione e del viso pallido. Purtroppo per tantissimi
cattolici da bene, che frequentano assiduamente messe e processioni,
sermoni e sacramenti.
Cattolici che, come
insegnava Jean Guitton "hanno così rispetto della Bibbia,
che non la toccano nemmeno". Poiché il cristiano che guarda
con odio e inimicizia il volto dello straniero, che non l'accoglie,
che non lo considera fratello, ignora il senso di quel dirsi cristiano.
Ignora che in quel "negro, in quello sporco straniero", c'è
quel Cristo crocifisso di cui si proclama orgoglioso difensore. E non
perché lo dice un povero prete o un cattocomunista. Ma perché
è scritto nelle Scritture, dall'inizio alla fine. Perché
il Dio di Abramo, di Giacobbe, di Mosè, di Isaia, si proclamava
il Dio dello straniero, il Signore dei popoli oppressi, il Santo
dei poveri. Perché quel Cristo che ci ha resi cristiani
è stato chiaro: chi accoglierà gli immigrati accoglierà
me. Chi invece avrà rigettato lo straniero, avrà rigettato
me. "E se ne andranno, questi al supplizio eterno e i giusti alla
vita eterna" (Cfr. Matteo 25, 31-45).
Perché, per le corte
memorie dei difensori dell'italianità, della pelle bianca ed
occidentale e della religione appesa al muro delle tradizioni, per i
difensori del crocifisso prima e crocifissori dello straniero subito
dopo, anche la vita di ciascuno di noi è un esodo, un migrare
da un principio ad una fine. Rassegniamoci, dunque. Siamo tutti pellegrini
erranti, stranieri su una terra che non ci appartiene e che ormai
mal ci sopporta.
Vincenzo
TARANTINO

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