Emilo
Rigatti
è nato a Gorizia nel 1954. Insegnante, scrittore
ma soprattutto cicloviaggiatore, ha appeso il volante al chiodo alla
fine del viaggio a pedali da Trieste a Istanbul del 2001 assieme a Rumiz
e Altan (al seguito del quale ha scritto (La strada per Istanbul premio
"Albatros" 2002 per la letteratura di viaggio). Da allora
si sposta solo in bicicletta, anche per compiere i 20 km giornalieri
per recarsi al lavoro. Con Ediciclo ha publicato anche Minima Pedalia
(2004) e Jo no soy gringo (2005) e
Italia fuorirota a Maggio nelle librerie
...LUNA
ROSSA A TERRANOVA
Mollo i freni e mi lascio trasportare dalla bici verso la valle. Ai
settecento metri di Noepoli il termometro segnava trentacinque gradi,
qui sul ponte supera i quarantatré, come se nel canalone della
fiumara s'incanalasse il fiato di un vulcano. La strada riprende a salire
impietosa e aerea, senza traffico e con un solo incontro: una squadra
di operai dell'ANAS arrampicati come capre sui dirupi, intenti a raccogliere
origano selvatico, il cui aroma impregna l'aria. "Da dove vieni?"
"Udine!" rispondo. Il più vecchio del gruppo urla:
"Ho fatto il militare là!" Ormai so cosa dire: "Berghinz
o Spaccamela?" "Spaccamela, la Berghinz era per i
"
e la parola dialettale, che non era un complimento, mi sfugge. A quota
770 m'imbatto in una fontana d'acqua che fa clippete cloppete, poi s'arresta,
poi erutta di colpo un quarto d'acqua gelida e riprende, come quella
della poesia. La vasca è piena di acqua pulita: mi afferro con
le mani sui bordi, faccio la squadra con le gambe e
splash! Una
spruzzata di liquidi surrenali mi accende il sistema nervoso, ficco
dentro la testa e infine balzo fuori, lustro come un bronzo appena fuso.
Il veloce bagno mi ha tonificato e i duecento metri di dislivello fino
a Terranova, allineata lungo il fianco destro della valle, li faccio
come fossero i primi della giornata. L'aria è fine e il Pollino,
con i suoi volumi pacifici e solenni, domina il panorama. Ho parecchia
fame e devo trovare delle informazioni precise sulla strada da fare,
che la carta segna come non asfaltata. Chiedo a un signore, decisamente
taglia forte, dove posso pranzare. "Qui, a cento metri, alla Luna
Rossa fanno piatti locali con ricette dell'epoca di Federico II".
Cucina federiciana in questo paese che è l'ultimo della valle,
il non plus ultra? "Ma è buono? non sarà
"
"Buonissimo, garantisco
" "È caro?"
Mi guarda ridendo: "vai tranquillo che ti prometto che non è
caro. È mio". Direi che a questo punto non ho scelta.
La terrazza dove mi fa accomodare Federico, il gestore, è protesa
sulla valle. Al tavolo vicino un romano e una polacca si rivelano conversatori
simpatici e curiosi, mi chiedono del viaggio e quando sanno che ero
del terzetto di Istanbul mi sottopongono a un interrogatorio. Intanto
i camerieri, due rumeni, professionali e di ottimo umore, mi mettono
in mano un menù, ma io mi affido a Federico, spiegandogli che
non devo mangiare molto e soprattutto non posso bere alcolici, visto
il pomeriggio che mi aspetta. "Ma neanche un bicchiere? Con quello
che ti sto per servire?" Alla fine, dopo la seconda o terza grappa
che sigla la fine di un pranzo degno, appunto, di un imperatore, pieno
di sapori inediti e sorprendenti, costellato di brindisi con la coppia
seduta a fianco, Federico si china con me sulla mappa per darmi delle
indicazioni. La strada, dopo la fiumara, mi spiega, s'inerpica passando
davanti alle case di Destra di Donne, poi c'è la fonte Miraglia,
Manca di Palo e poi devo passare tra due cime, La Falconara e la Timpa
di San Lorenzo, attraversare il Bosco della Fagosa, scollinare a quasi
1500 metri e veleggiare fino a Civita. Le spiegazioni mi sembrano chiare
come le carrarecce segnate sulla carta e prendo alla leggera l'avvertimento
che la strada è in pessimo stato. È il momento, giunto
troppo tardi perché sono le tre e mezza, dei saluti: ci stringiamo
la mano - romeni, romani, polacchi e lucani - e sento che prima o dopo
tornerò qui con mia moglie e con mio figlio. L'unico ringraziamento
che posso fare a Federico, che non ho più sentito da allora,
è quello di non riportare qui il conto, sproporzionato per difetto
se raffrontato all'agape sotto cui sono restato mezzo intontito.
Le fiumare. Capisco che questi grandi spazi tra una montagna e l'altra,
di una bellezza primordiale, percorsi da alluvioni di sassi, mi faranno
penare parecchio, e la discesa fino al ponte è troppo breve per
digerire il pranzo della Luna Rossa. Sono posti stupendi lasciati in
usufrutto solo a noi amanti della fatica e del silenzio: ma basterebbe
una superstrada da Senise e il Pollino diventerebbe un altro luna park,
come le cascate del Niagara o certi ghiacciai delle nostre Alpi. La
successiva salita, a differenza di Federico, mi presenta il conto tutto
per intero, e quando arrivo alle case di Destra di Donne sono stanco
e un po' pentito. La strada è diventata sconnessa, poi si è
ridotta a un sentiero. Un paio di bivi mi hanno messo in angoscia e
per qualche momento ho avuto la tentazione di girare la bici e di tornare
a Senise, per aggirare il Pollino seguendo la costa. Ma barerei al gioco
di cui ho inventato le regole e di cui sono l'unico giocatore.
FUORIROTTA
Qualche latrato lontano di cani mi preoccupa e mi procuro un bastone,
che lego alla bici con due elastici. A un certo punto le ruote cominciano
a slittare sui sassi e non ce la faccio a restare in sella. Federico
mi ha detto di tenere la destra, ma io ho già saltato un paio
di sentieri perché mi sembravano troppo stretti per corrispondere
alle ottimistiche indicazioni della carta. La solitudine di queste montagne
è percorsa da raffiche impetuose di vento tiepido che mi portano
il suono dei campanacci, i belati di greggi lontane, odori di miele
e resina. Spingo la bici sull'erta, con le caviglie che mi cominciano
a far male per la tensione a cui sono sottoposte, e scorgo un anziano
pastore a pochi metri sopra di me, seduto su un sasso. Lì davanti
c'è un altro bivio. L'uomo non mi ha visto perché è
girato di spalle e l'alito del vento è cosi avvolgente che inghiotte
e frantuma i suoni, li porge all'orecchio in un naufragio di rumori
incomprensibili. "Ahe! Salve!", gli urlo. Quello si gira,
sgrana gli occhi e se ne esce con una frase abbaiata, di cui non capisco
neppure il senso lontano. Appoggio la bici a terra per poter parlare
anche con le mani e insisto: "Vado a Civita del Pollino. Son giusto?"
Mi aspetto solo un sì o un no, ma il pastore, quasi uno gnomo,
si è alzato in piedi sulle sue gambe curve, dimena il bastone
in più direzioni e si profonde in un discorso incomprensibile.
In Serbia ero molto meno straniero di qui. Sono disperato e vorrei solo
un sì o un no, ma il vecchio è convinto che io capisca
tutto. "Senta" urlo "vado a Civita
" Lui risponde
con un'altra frase, ignorando i due monosillabi che aspetto come una
liberazione. "
a Civita, Civita del Pollino? Vado a destra
o a sinistra?" Lui capisce, chi non capisce sono io. Continua a
sbracciarsi, agitando il metronomo del suo bastone di qua e di là,
proferendo sequele di suoni: tutti, dico tutti, inintelligibili. Cerco
di essere didascalico come un questionario chiuso: "Vado a destra,
per Civita?" Ma si vede che la cosa non si può risolvere
con un sì o con un no, e il pastore rifonetizza le preziose informazioni
in un codice di cui non possiedo neppure una lettera. Rassegnato gli
urlo un "Grazie" e avanzo, prendendo la strada di destra che
mi pare - ma è una sensazione da medium, parasensoriale - più
battuta dell'altra. Il pastore mi richiama a ululati, forse imbestialito
da un viaggiatore così somaro. Agita il bastone con severità,
inanella i suoi fonemi preindoeuropei, io retrocedo, imbocco l'altro
sentiero, e dal borbottio discendente capisco che approva. Faccio due
metri e torno a guardarlo. Con decisione agita e punta il bastone nella
direzione che ho preso. Lo saluto e ottengo in risposta un tri o un
quadrisillabo soddisfatto, insomma il suono più corto che ho
ascoltato dalla sua voce. Ma un sì o un no, qui sul Pollino pare
non esistano, oltre a essere afflitti da un'endemica mancanza di gente
che li pronunci.
Il sentiero a due passi dal cielo continua tra arbusti, pascoli e recinzioni,
in assoluta solitudine. Innalzandosi dal mare bruciato di questo mosso
altipiano macchiato di boschi, dove più volte devo smontare e
spingere, la Timpa di San Lorenzo si profila grigia contro l'azzurro:
ha un che di squalesco, potrebbe essere tanto una pinna come un enorme
dente fossilizzato di pescecane che morde il cielo. È incombente,
forse la sua voce è il rumore vigoroso e incessante del vento.
Ancora bivi, ancora perdite di tempo ad aprire la carta, tenendola inchiodata
al suolo con delle pietre per impedire che le raffiche la sbrindellino.
A un certo punto ho un'illuminazione: Rigatti, ti sei smarrito, ammettilo,
meglio la morte che l'agonia. Mi dichiaro disperso e accettarlo mi solleva
un po'. Ho il sacco a pelo, non fa freddo, ho da bere e una razione
di sopravvivenza. I sentieri portano da qualche parte e se non arriverò
a Roma arriverò a Toma. Se non oggi, domani. Nel cielo che declina
verso tinte preserali, non molto sopra di me, il volo di un rapace sfoglia
gli strati ventosi su cui si libra. Riesco a vedere la sua testa che
ruota a scatti, le ali nervose e tese a correggere l'equilibrio con
tocchi da pittore. Non so che uccello sia, non capisco il dialetto dei
pastori, non so dove sono e nemmeno perché mi trovo così
fuori posto rispetto all'asse abituale della mia vita, perso sulle vertebre
di quest'Italia che scende fino al culmine, che sale fino al fondo,
alla grotta di Scilla. Mi torna in mente una frase del mio amico Tomaso
Falco, rubata a Pippo: una discesa vista dal basso assomiglia tanto
a una salita. Nord e Sud, che chiodi nella testa! Come il buono e il
cattivo, il dolce e il salato, la vita e la morte, l'io e il subconscio.
Difficile sbarazzarsene. "Salire a Sud", "arrampicarsi
in discesa", il magnetismo della bussola dei pregiudizi riceve
degli impulsi elettrici che ogni tanto la fanno impazzire. È
il momento in cui la rotta perde la sua linearità e il viaggio
si allarga come i cerchi di un sasso lanciato in uno stagno, o implode
verso un centro che è solo nostro, di qui e di adesso. Mi giro
verso nord e penso: Ruda, Rosa, casa mia, là, oltre tutte le
montagne. Amadeo in Canada. Non a nord: semplicemente là. Vorrei
chiamare a casa, ma non c'è segnale. Mi butto sull'erba e cerco
di ordinare l'accidentalità scomposta di quest'onda tettonica
su cui sono disteso, ma all'inizio il suo caos mi annienta dolcemente.
Poi, dal disordine della roccia affiorano lì un volto di donna,
là un cervo. Tutta insieme, invece, la Timpa si rivela un dinosauro
pietrificato, e resto dei minuti, assente da tutto, a percepire il suo
respiro sotto la mia schiena e lo scroscio del vento caldo. Il paradiso
sarebbe l'Assenza Totale, la Divina Immobilità del Nulla, come
suggerisce il poeta? Mi rimetto a sedere. Invece ci tocca vivere con
il terrore che dopo la morte ci si ritrovi nell'aldilà con il
vicino, il sindaco del paese o l'archigeometra che ha progettato la
nuova urbanizzazione, il municipio o la scuola elementare. Siccome non
credo in un altro mondo dove me li ritroverò, posso convenire
col poeta quando dice: la morte si sconta vivendo. A venti chilometri
in linea d'aria sfrecciano le automobili sull'A3 e io qui sono fermo:
non mi raggiungeranno mai. La lentezza è più inaccessibile
della velocità e la macchina per guadagnarla e mantenerla a lungo
è molto più complessa dei cavalli di un motore. E, specialmente
oggi, è una conquista, un privilegio di pochi. Mi viene in mente
Achille: può correre quanto vuole, il Pelide non ce la farà
mai, poveretto. Adesso ho capito il perché: la tartaruga è
troppo lenta.
Il
rumore di un motore a due tempi mi fa sobbalzare. Rimonto in sella e
vado, finché scorgo un uomo su una moto. Urlo e mi agito e i
pastori maremmani del suo gregge mi si avventano contro ringhiando.
Urlo ancora, trovo una pietra su cui arrampicarmi e finalmente il pastore
richiama le bestie, che si fermano al comando. Il pastore, un giovane,
mi raggiunge con due colpi di acceleratore: "Tutto a posto?"
"Ho preso un po' di paura per i cani, sa
" "State
tranquillo e scendete pure, che mi obbediscono. Vi serve qualcosa?"
"Sì" replico "devo andare a Civita
"
"A Civita!" fa quello dandosi un colpo in fronte "Avete
sbagliato. Qui si va giù a San Lorenzo Bellizzi". "Maledizione"
dico "avevo una stanza prenotata a Civita
" "State
tranquillo" mi rassicura "al bar Pino Loricato vi daranno
da dormire".
La strada scende veloce in mezzo a una gola boscosa, sul cui fondo scorre
un torrente. Il vento vi si incanala e il rumore, a momenti, sembra
quello di una mandria di treni. Poi cala di colpo, e il silenzio si
libra come una nuvola, come un respiro non terminato. Sono intontito
dalla roccia che sprofonda nell'antimondo dei colori tonali grigiorosati,
dalle grida dei pastori, dallo strepito dei pollai delle prime case.
Il ritmo ancora debole dell'umanizzazione comincia a codificare la casualità
composita di geologia e botanica. Dall'altra parte della gola, contrastando
con l'ordinato susseguirsi di campi, col nostro mondo delle regole,
delle parole, del precario equilibrio della coscienza, la Timpa, per
rassicurarmi, assume le forme di un animale mai visto ma che riconosco,
qui e ora.
Da San Lorenzo Bellizzi salgono buone vibrazioni, qualche nota musicale,
il ronzio di un motorino, profumo di cibo. Il paese, che ha case e strade
di pietra, è raccolto, tenuto bene, restaurato forse con troppo
zelo, ma certamente con uno spirito domestico e ospitale che tracima
solo, a mio avviso, nei murales con cui si sono decorate alcune case
della piazza. Il campanile, un perfetto parallelepipedo di roccia bruna
ben piantato, è semplice ma ha una rustica originalità:
la sua cella campanaria è collocata non sulla sommità,
ma a metà del volume. C'è un quieto movimento: turisti,
prevalentemente pugliesi, animano le strade e la piazza del borgo montano.
Il telefono pubblico non funziona e questo è l'unico punto dove
ogni tanto gocciola una tacchetta del segnale TIM. Così, diverse
persone vagolano per la piazza tenendo i cellulari come fossero la bacchetta
del rabdomante. Almeno qui, interpellare i Nuovi Oracoli obbliga a questa
specie di rito della circumambulatio, che regala al cellulare un ruttino
di sacralità. Al Pino Loricato mi danno la cena e mi procurano
da dormire. Li ha messi di buon umore il fatto che pensassi che "Pino
Loricato" fossero il nome e il cognome del gestore, invece dell'albero
che è il simbolo del parco, il Pinus Leucodermys, la cui corteccia
ha un disegno che ricorda le loriche dei romani. Seduto sulla piccola
terrazza del bar, mangio i ferrazzuoli al sugo di agnello e una costata
con le patate alla contadina. Mastico con lo sguardo in su e mi faccio
impressionare come una carta fotografica dall'aureola rossastra che
ritaglia nella sua fiamma l'indaco profondo dei denti della montagna.
Scambio qualche battuta con le persone della tavolata a fianco, giovani
e vecchi assieme. Quando dico che è un peccato che così
poca gente conosca questi posti, il padrone del bar commenta: "È
meglio non troppo turismo". Ancora "l'arretratezza come valore",
per usare la frase del ristoratore di Pontelatone? Ma c'è chi
vorrebbe asfaltare il Pollino. Il sentiero che ho percorso oggi diventerebbe
una strada, e il rombo di moto e auto segherebbe alla base il più
bell'albero del massiccio, il silenzio. Guardo il monte e tra me e me
dico: tieni duro, hermano. A un certo punto una parrucchiera, che nota
il mio rapimento per le cime, ormai dormienti, mi dice: "Le piacciono?
C'è chi non le sopporta, stanno lì, enormi
".
Non capisco se parli di se stessa o di imprecisati altri, però
mi torna in mente di quando, disteso sull'erba, mi sono lasciato sopraffare
dalla massa della Timpa. Chissà perché inquietano, queste
balze. Io credo di sapere cosa sia: più che la massa fisica,
è la mole incommensurabile delle ere di cui sono cariche a far
apparire il nostro vivere meno di un attimo in rapporto al loro essere.
Sono il segnale di un tempo che si libra molto più in alto di
quello dei nostri orologi, dei nostri calendari. Saluto gli occasionali
compagni e vengo affidato a un giovane che mi precede in motorino sulla
salita che ho percorso poco fa. Mi è assegnata una mansarda enorme
in una casa nuova, con letto matrimoniale e acqua calda, a un prezzo
da pellegrini. Ci meritiamo una dormita: io e il mio angelo custode
che oggi, tra cani arrabbiati e smarrimenti, ha lavorato più
del solito. Fuori la cascata di vento continua a ruggire tra gli alberi
e i massi della gola, sembra si voglia portare via la Timpa, l'esile
strato di terra su cui crescono orti e olivi e il tetto, il mondo intero.
È il migliore tra i sonniferi.
IN
CALABRIA!
Da San Lorenzo Bellizzi a Rossano Calabro
- 25 luglio - 90 km
Il
rapporto con il paesaggio è sempre un'affettività all'opera
prima di essere uno sguardo. Ogni luogo, quindi presenta una stratificazione
di sentimenti diversi a seconda degli individui che vi si accostano
e dell'umore del momento. Ogni spazio contiene in potenza molteplici
rivelazioni, per questo nessuna esplorazione esaurisce un paesaggio
o una città. Thoreau
LE
NINFE PRIGIONIERE
Ieri ho conosciuto Lorenzo, un giovane di qui che vive a Roma e d'estate
fa la guida nei meandri rocciosi dove il Raganello precipita spumeggiando,
tra rapide e quiete gore. Lo incontro di buon'ora e, dall'aerea piazza
del paese, mi conduce in macchina fino a un punto da cui si raggiunge
a piedi il letto del torrente. "Ci si mette la muta, le scarpe
da ginnastica e poi si scende, un po' a piedi e un po' a nuoto"
mi dice mentre guardo la corrente, in questo punto tranquilla, sgorgare
da sotto un groppo di massi precipitati dalla parete che si erge verso
il cielo. "Non t'immagini l'emozione di scendere a valle con l'acqua
bianca in mezzo ai macigni
". Sopra di noi la roccia respira
con il suo alito grigio e a mano a mano che il sole dilaga perde le
cappe d'ombra che si annidano sotto le sporgenze. Lorenzo insiste, ha
un tour che parte tra qualche ora e m'invita ad accompagnarlo. Più
che un elenco delle cose che ho visto questo libro rischia di essere
una geremiade per quelle che non ho visto. La tentazione di restare
si scontra con il fatto che è un mese che sono in viaggio e il
mio conto in banca, a differenza dei cieli azzurri del Pollino, ha un
fondo. "Sarà per un'altra volta" potrebbe essere il
titolo del libro. Può anche succedere che ci si tolga lo zaino
dalle spalle, lo si butti sul prato e si decida: "Io resto qui".
Allora le velocità di scorrimento cambiano, ciò che andava
diventa fermo e ciò che era fermo inizia a scorrere, con momenti
di illusione ottica simili a quelli che si provano sul treno, quando
non capiamo se a muoverci siamo noi, il convoglio accanto o la stazione.
A me è successo in Colombia, dove sei mesi diventarono sette
anni e, in un certo senso, tutta la vita. In questo viaggio mi sono
regalato due ozi, a Palestrina e a Pietramelara. "Lorenzo"
gli dico "non sai quanto mi piacerebbe
" Torniamo in
paese e, mentre camminiamo chiacchierando, un tipo seduto davanti all'osteria
"All'Artista" ci chiama: "Ciao Lorenzo, ciao furlàn".
Furlàn? questo cinquantenne dall'aria un po' hippy e con i capelli
ricci non l'ho mai visto prima. "Come fai a sapere che sono friulano?",
gli chiedo. "Da come parli: ho vissuto quindici anni in Friuli
e conosco l'accento. Ho sbagliato?" Antonio Pesce, è questo
il nome del gestore dell'osteria "All'Artista", durante le
estati degli anni settanta faceva il madonnaro a Grado, dipingendo con
i gessetti colorati i marciapiedi davanti agli ingressi della spiaggia.
Non ci posso credere! Mi ricordo perfettamente dell'hippy a cui, estate
dopo estate, lanciavo uno sguardo curioso mentre colorava le sue madonne
davanti all'entrata principale della spiaggia. Me n'ero dimenticato
nella maniera più assoluta, e adesso i frammenti di allora si
ricompongono in quella camera della memoria dove, se siamo fortunati,
ci possono arrivare dal passato immagini, odori, gesti, atmosfere, intere
sequenze, e quella sensazione indicibile che abbiamo provato solo in
quel momento. Il madonnaro di Grado! Qui, a San Lorenzo Bellizzi! Mi
stupisco molto di meno di quanto mi stupirò tra tre mesi, quando
Gaetano, un amico lucano che lavora a Padova, mi dirà di essere
amico sia di Federico della Luna Rossa che di Antonio Pesce. Ma ogni
stupore a suo tempo. Per Antonio anche io sono un'inaspettata finestra
sui luoghi dove ha vissuto la sua gioventù vagabonda. Conosce
tutti i paesi, tutti i ritrovi alternativi che frequentavo anch'io,
e conveniamo che è molto probabile che ci siamo incrociati nel
corso delle nostre peregrinazioni notturne, forse al Gasthaus di Aiello,
forse al Macondo di Moraro. Brindiamo più volte all'incontro
finché il sole si affaccia dai tetti del vicolo e fa sentire
la grana della sua carta vetrata. È ora di partire, anzi, quella
è già passata da un pezzo, perché mi ero ripromesso
di levare le ancore alle sette per raggiungere in giornata Paludi o
Cropalati. Ci scambiamo gli indirizzi, un paio di pacche sulle spalle
e gli ultimi saluti. Di San Lorenzo Bellizzi, il paese della rotta ritrovata,
e di Lorenzo e Antonio non mi dimenticherò facilmente.
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